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    Sentenze: Veicolo aziendale USL e colpa conducente in seguito a tamponamento

    Non solo le forze armate, di Polizia e CRI chiedono risarcimento danno al conducente “maldestro” reo di colpa lieve o grave... ATTENZIONE!


    Riprendiamo una recente sentenza che riguarda un veicolo aziendale USL dove il conducente causa un tamponamento ma leggiamo insieme gli sviluppi...


    SENT. N. 15/2020/ CORTE DEI CONTI SEZIONE GIURISDIZIONALE PER LA REGIONE EMILIA ROMAGNA


    SENTENZA


    nel giudizio di responsabilità iscritto al n. 45060 proposto ad istanza del Procuratore Regionale presso la Sezione Giurisdizionale per la Regione Emilia-Romagna della Corte dei conti nei confronti di OMISSIS, rappresentato e difeso dall’Avv. F. Giunta del Foro di Reggio Calabria, ed elettivamente domiciliato presso il suo studio legale, come da procura allegata alla comparsa di costituzione e risposta;


    Visto l'atto di citazione;


    Visti gli altri atti e documenti di causa;


    Uditi nella pubblica udienza del 13.12.2019 il relatore Cons. Alberto Rigoni, il Pubblico Ministero nella persona del S.P.G. Roberto Angioni e l’Avv. G. Giglio Sarlo su delega dell’Avv. F. Giunta per OMISSIS;


    MOTIVAZIONE


    Con atto di citazione regolarmente notificato la Procura Contabile cita in giudizio OMISSIS, medico chirurgo già dipendente dell’USL di OMISSIS, per sentirlo condannare al risarcimento del danno erariale pari ad euro 7.129,39 in favore della predetta azienda sanitaria oltre rivalutazione monetaria ed interessi legali.


    L’atto di citazione riferisce che in data OMISSIS il Dott. OMISSIS, all’epoca dei fatti medico dipendente dell’USL di OMISSIS, mentre stava guidando una vettura aziendale per effettuare una visita domiciliare in OMISSIS a OMISSIS, rimaneva coinvolto in un incidente stradale nei pressi di OMISSIS ove tamponava un mezzo che lo precedeva fermo incolonnato ad un semaforo rosso.




    La Procura attrice riferisce che nella circostanza il convenuto violava gli artt. 141 e 149 c.d.s. e le regole di diligenza e prudenza, causando all’amministrazione un danno di euro 7.129,39, pari alla spesa sostenuta dall’amministrazione e disposta con ordinativo di pagamento del OMISSIS, in merito alla quale il OMISSIS era stato sollecitato al rimborso con raccomandata ricevuta il OMISSIS.


    Secondo l’attrice sarebbero presenti tutti gli elementi per la contestazione del danno erariale, stante il danno emergente all’autovettura di proprietà dell’USL di OMISSIS, il rapporto di servizio, la verificazione del fatto in occasione dell’attività cui il OMISSIS era preposto e la colpa grave conseguente alla violazione dell’obbligo di adeguare la velocità e la distanza alle condizioni del traffico, alla , alla mancanza di prudenza nell’approssimarsi di un incrocio ed alla violazione della distanza di sicurezza durante la marcia.


    Si costituisce in giudizio OMISSIS, con l’avv. F. Giunta del Foro di Reggio Calabria, depositando comparsa di costituzione e risposta.


    Eccepisce l’intervenuta prescrizione dell’azione contabile, posto che il termine prescrizionale decorrerebbe dal momento in cui l’amministrazione è consapevole del fatto dannoso inteso come realizzazione della condotta e conseguente danno materiale.


    Richiama l’art. 2935 c.c. sostenendo che l’USL di OMISSIS avrebbe avuto contezza del danno già dal OMISSIS, data in cui il OMISSIS ha comunicato l’avvenuto incidente stradale. Successivamente l’azienda ha disposto la riparazione dell’autovettura con la ricezione di fattura del OMISSIS da parte dell’autofficina incaricata e per tale motivo l’USL di OMISSIS, da quella data, sarebbe a conoscenza dell’effettiva entità del danno. In tal senso, la prescrizione quinquennale dovrebbe, al limite, decorrere da tale data, posto che l’effettivo pagamento non aggiungerebbe nulla alla fattispecie di danno erariale.


    Il convenuto ritiene altresì che la Procura contabile avrebbe dovuto attivarsi immediatamente non appena reso noto l’evento dannoso, ma che in realtà il primo atto, costituito dall’invito a dedurre, gli è stato notificato solo in data 24.01.2019 a termine prescrizionale già decorso.


    Ritiene che la missiva inviata dall’USL di OMISSIS da lui ricevuta il 5.08.2019 non avrebbe alcun effetto interruttivo della prescrizione in quanto nella stessa non si farebbe riferimento ad un’esplicita richiesta di risarcimento del danno, ma semplicemente si comunica di aver notiziato la Procura contabile.


    Nel merito, ritiene che la Procura attrice non abbia dimostrato la sussistenza della colpa grave stante la mancata dimostrazione di un’evidente trasgressione di un obbligo da parte del convenuto e non una semplice violazione delle norme del codice della strada che, in sé, non rappresenterebbe un valido presupposto per la responsabilità amministrativa.


    Conclude chiedendo il rigetto della domanda o, in via subordinata, la riduzione dell’addebito.


    All’udienza del 13.12.2019 il Pubblico Ministero e la parte convenuta si sono riportate alle conclusioni formulate nei rispettivi atti processuali.


    La domanda attorea non può essere accolta.


    Il Collegio ritiene di aderire al criterio della c.d. “ragione più liquida” che consente al giudicante di sostituire il profilo di evidenza a quello dell’ordine delle questioni da trattare secondo quanto previsto dall’art. 101, comma 2, c.g.c., in aderenza alle esigenze di economia processuale, in modo che il giudizio possa risolversi sulla base della questione di merito ritenuta di più semplice soluzione (Cass. Sez. III, n. 5805/2017; SS.UU. n. 9936/2014).


    Ciò posto, appare necessario procedere alla valutazione della sussistenza degli elementi fondanti la contestata responsabilità amministrativa a prescindere dall’eccezione preliminare afferente alla prescrizione dell’azione erariale.


    A giudizio della Sezione difetta, nella fattispecie, la gravità della colpa quale presupposto necessario per l’accoglimento della domanda della Procura Regionale.





    Infatti, la colpa grave nel caso di incidenti stradali con autovetture di servizio non può esser valutata semplicemente ed automaticamente con la sola violazione di norme del codice della strada, ma deve emergere da una condotta gravemente imprudente o consistere in una inescusabile inosservanza delle comuni regole di diligenza, prudenza, cautela e perizia cui sono tenuti tutti gli automobilisti in occasione della guida di veicoli circolanti su strade ed aree pubbliche (Corte dei conti, Sez. I App., n. 235/2015; Sez. Piemonte, n. 51/2019). In tal senso, la colpa grave deve trovare fondamento in comportamenti volontari che pongano in essere una condotta di guida incurante delle esigenze degli altri automobilisti e gravemente imprudente da caratterizzarsi quale assoluto disprezzo delle norme sulla circolazione stradale e grave inosservanza delle comuni regole di attenzione, diligenza e cautela nella conduzione dei mezzi a motore.


    Pertanto, non è sufficiente ai fini della configurazione della colpa grave la mera violazione delle norme del codice della strada, seppure di fondamentale importanza, ma occorre che vi sia da parte della Procura attrice la dimostrazione positiva della condotta pericolosa del convenuto che, in considerazione dell’attività lavorativa svolta, sia stata sprezzante delle basilari regole di prudenza tanto da determinare il verificarsi dell’evento dannoso.


    A giudizio del Collegio, tale dimostrazione da parte attrice appare non sufficiente, in quanto la domanda si costruisce apoditticamente sulla semplice contestazione della violazione degli artt. 141 e 149 c.d.s..


    È di tutta evidenza che l’avvenuta violazione del codice della strada accerti una colpa in capo



    a OMISSIS, ma tale elemento soggettivo non oltrepassa il limite della colpa lieve. Dal verbale della Polizia Municipale di OMISSIS (prot. N. OMISSIS, in atti), intervenuta prontamente sul luogo del sinistro del OMISSIS, non si evincono elementi determinanti per poter affermare che vi siano le condizioni necessarie per la configurabilità della responsabilità amministrativa di OMISSIS, posto che la contravvenzione è stata elevata al convenuto solamente sulla base delle sue ammissioni e delle dichiarazioni di OMISSIS, conducente del veicolo tamponato dall’autovettura di servizio, non essendo stati rinvenuti testimoni oculari terzi ed indifferenti che potessero affermare l’assoluto disprezzo delle menzionate norme di guida o che la causa del sinistro potesse riferirsi ad una condotta spericolata di OMISSIS.


    In conclusione, la domanda attorea va respinta per carenza dell’elemento soggettivo minimo in capo al convenuto.


    Stante la sussistenza della colpa lieve nella condotta di OMISSIS nella causazione del sinistro oggetto del presente giudizio, il Collegio dispone l’integrale compensazione delle spese processuali tra le parti ai sensi dell’art. 31, comma 3, c.g.c. (Cass. n. 8282/2016).


    P.Q.M.


    La Corte dei conti, Sezione Giurisdizionale per la Regione Emilia-Romagna, definitivamente pronunciando, respinge la domanda attorea come da motivazione.


    Compensa le spese processuali tra le parti.


    Il Collegio, considerata la normativa vigente in materia di protezione di dati personali e ravvisati gli estremi per l’applicazione dell’art. 52 del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196, avente ad oggetto “Codice in materia di protezione di dati personali”, dispone che, a cura della Segreteria, venga apposta l’annotazione di omissione delle generalità e degli altri elementi identificativi, anche indiretti, del convenuto, dei terzi e, se esistenti, dei danti causa e degli aventi causa.


    Manda alla Segreteria per i conseguenti adempimenti.


    Così deciso in Bologna nella camera di consiglio del 13.12. 2019.


    Fonte: Corte dei conti


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    CITAZIONE (Orazio1 @ 27/1/2021, 13:15) 
    Qualcuno sa dirmi quando guadagna un autista asl no ambulanza ,
    Siccome devo iniziare a lavorare per Asl come autista ,per le auto che consegnano roba ,medicine ecc..
    Sono quella auto bianche con la scritta ASL .
    Grazie per chi mi risponde

    Dipende dalla qualifica stipendiale... comunque

    Lo stipendio medio di un Autista con Patente B "generico" diciamo un livello B zero è di 1.450 € netti al mese (circa 26.400 € lordi all'anno), ci sono le tabelle stipendiali aggiornate sul sito dell'ARAN, cerchi il contratto comparto sanità e lì trovi tutto...
  3. .
    SENTENZA
    sul ricorso proposto da
    XXXXXXXXXXXXXXXX
    avverso la sentenza del 06/06/2016 della Corte di appello di Brescia;

    visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;

    udita in camera di consiglio la relazione svolta dal Consigliere xxxxxx;
    sentito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale
    xxxxxxx che ha concluso chiedendo il rigetto del ricorso;
    udito il difensore della p.c., avv. xxxxx, in difesa della p.c. xxxxxx
    quale legale rappresentante della soc. xxxxxx, che chiede il rigetto del
    ricorso come da conclusioni scritte che deposita con la nota spese.

    RITENUTO IN FATTO
    1. La Corte di appello di Brescia, con sentenza in data 06/06/2016,
    confermava la sentenza emessa dal Tribunale di Bergamo in data 13/04/2016
    nei confronti di xxxxxx che era stato condannato alla pena di mesi quattro
    di reclusione per il reato di cui all'art. 328 cod. pen. perché in qualità di medico

    Penale Sent. Sez. 6 Num. 34535 Anno 2019
    Presidente: xxxxxx
    Relatore: xxxxxx
    Data Udienza: 08/01/2019
    Corte di Cassazione - copia non ufficiale

    addetto al servizio di continuità assistenziale presso la ASL di Bergamo Distretto
    Valle Brendana, indebitamente rifiutava atti del suo ufficio che per ragioni di
    igiene e sanità dovevano essere compiuti senza ritardo. Il sanitario non era
    intervenuto presso l'Hotel xxxxxx di Foppolo (Bergamo) dove era stato
    chiamato con urgenza dall'albergatore, poiché sei ragazzi di circa dieci anni di
    nazionalità inglese in vacanza presso il detto hotel, avevano accusato malesseri
    fisici come vomito ed attacchi di dissenteria.

    Già il giudice di primo grado aveva configurato come reato il comportamento
    omissivo del dott. xxxxxx, perché durante la notte tra il 19 ed il 20 febbraio 2015 il
    dottore, di turno alla guardia medica, si era intrattenuto al telefono per circa
    quindici minuti con l'albergatore ponendo numerose domande, talvolta
    vanamente ripetute, esprimendo commenti, senza accogliere l'invito
    dell'albergatore a recarsi urgentemente presso l'hotel per visitare i bambini che
    manifestavano nausea e vomito, al pari di due professori che li
    accompagnavano.

    L'imputato aveva opposto un profilo di discrezionalità tecnica nel formulare
    le domande per avviare una diagnosi, e stabilire se la sua presenza in albergo
    poteva essere indispensabile. Tuttavia, l'albergatore, spazientito, si era poi
    rivolto al servizio di emergenza del 118 che era intervenuto tempestivamente.
    L'intervento succedaneo del servizio del 118 evidenziava "la plateale violazione
    degli obblighi cui era tenuto il medico di turno".

    La Corte di appello aveva sottolineato che la durata della conversazione si
    era protratta per 13 minuti e 26 secondi e l'imputato, aveva inizialmente opposto
    un netto rifiuto, ritenendo di non dovere effettuare la visita domiciliare per il solo
    vomito dei pazienti. In concreto, non avrebbe rivolto alcuna domanda specifica
    per indagare e approfondire le condizioni dei giovanissimi pazienti, tanto che
    l'albergatore, preso atto della inconcludenza della conversazione, interrompeva
    la chiamata e si rivolgeva al servizio del 118.

    La difesa del medico ha sostenuto che, successivamente, l'imputato si
    sarebbe recato presso l'hotel xxxxx di Foppolo per valutare di persona lo stato
    di salute dei bambini, constatando che era già intervenuto il 118 e, pertanto,
    sarebbe andato via; tuttavia, rileva la Corte che la circostanza è rimasta del tutto
    priva di prova.

    Osserva il giudice di appello, che quand'anche non vi fosse stato pericolo di
    vita, ciò non esclude la sussistenza dell'obbligo di eseguire la visita richiesta,
    considerata la preoccupante situazione che era stata esposta dal titolare
    dell'albergo: si trattava di otto pazienti di cui sei bambini che continuavano a
    vomitare e che si trovavano in un albergo piuttosto lontano dal più vicino Pronto
    Soccorso e per i quali non sarebbe stata sicuramente sufficiente una diagnosi per

    telefono, richiedendosi la visita anche per escludere il pericolo di una rapida
    epidemia all'interno della comitiva.
    Venivano negate altresì le circostanze attenuanti generiche ed anche la
    richiesta di conversione della pena detentiva nella corrispondente pena
    pecuniaria poiché le condizioni economiche dell'imputato inducevano a ritenere
    che la sola pena pecuniaria avrebbe avuto scarsa efficacia afflittiva ed anche
    tenuto conto della gravità del fatto, trattandosi di delitto contro la pubblica
    amministrazione commesso da un pubblico ufficiale nell'esercizio delle funzioni e
    in danno di "persone appartenenti a fascia debole".

    2. Ricorre per cassazione xxxxxx per il tramite del proprio difensore di
    fiducia deducendo i seguenti motivi enunciati nei limiti strettamente necessari
    per la motivazione ai sensi dell'art. 173 disp. att. cod. proc. pen.:
    1) manifesta illogicità e contraddittorietà della motivazione per travisamento
    del fatto con riguardo al contenuto della conversazione telefonica tra
    l'albergatore e l'imputato.

    La difesa ricorda che è in atti la trascrizione della telefonata ricevuta alle ore
    00.50 del 20/02/2015 dal dott. xxxxxxxx, medico di turno notturno di
    continuità assistenziale presso la postazione di Piazza xxxxx. E mentre la
    Corte di appello ha valutato che tale conversazione dimostrava il sostanziale
    rifiuto del sanitario a recarsi nella località dell'albergo per fornire l'assistenza
    medica richiesta, la difesa ritiene che la motivazione della Corte di appello sia
    manifestamente illogica, poichè i giudici di merito non hanno tenuto conto che, a
    tenore della telefonata intercorsa, il dottore xxxxx avrebbe più volte espresso la
    disponibilità ad eseguire la visita. Il travisamento della prova è dato dalla
    circostanza che in 13 minuti e 26 secondo di conversazione la Corte di merito ha
    ritenuto realizzarsi il "sostanziale rifiuto del sanitario" mentre, secondo la difesa,
    si sarebbe trattato di un tempo necessario per acquisire informazione onde
    determinarsi sul contegno da assumere. Quanto alla circostanza riferita
    dall'imputato che comunque lo stesso si era recato presso l'albergo ed era
    tornato indietro avendo visto che era intervenuto il servizio del 118, essa
    risulterebbe dalla verbalizzazione effettuata il 20/02/2015 dallo stesso dott. xxxxx
    sul registro della postazione di continuità assistenziale di Piazza Brembano che
    costituisce, secondo la difesa, documento di carattere medico-legale.
    L'annotazione nel registro è stata compiuta di pugno del dottore ed è l'unico
    elemento addotto dall'imputato per dimostrare che si era recato nel luogo.

    2) inosservanza ed erronea applicazione dell'art. 328 cod. pen., vizio di
    motivazione sulla ritenuta natura indebita del diniego.

    La Corte non avrebbe affrontato un punto cruciale e risolutivo della vicenda
    processuale costituito "dall'apprezzamento sulla obbligatorietà e indifferibilità
    dell'atto che si impone al pubblico ufficiale ove questi disponga di uno spazio di
    discrezionalità scientifica per valutare l'opportunità o la necessità di compiere
    l'atto di ufficio". La Corte non avrebbe valutato gli elementi probatori riguardanti
    gli elementi costitutivi del reato: la preoccupante situazione era stata prospettata
    dall'albergatore, ma il dott. xxxx aveva valutato il "tono inutilmente allarmato,
    l'enfasi delle espressioni e l'atteggiamento suggestionato dell'interlocutore". Il
    dott. xxxxx aveva valutato che i malesseri di nausea e vomito non costituivano
    un'emergenza di natura oggettiva e la situazione lasciava al medico "margini di
    valutazione discrezionale circa la necessità di un intervento immediato tale da
    escludere la ricorrenza dell'atto dovuto". Sussiste invero il reato di omissione di
    atti di ufficio solo quando sia comprovato che l'urgenza prospettata dal paziente
    era effettiva e reale, rimanendo al sanitario uno spazio di discrezionalità tecnica
    allo stesso attribuito.

    3) nullità della sentenza per omessa pronuncia o insussistenza di
    motivazione in ordine alla configurabilità dell'elemento psicologico del delitto.
    Affinchè possa ritenersi integrata la fattispecie dell'art. 328 deve essere
    accertata tanto la consapevolezza dell'impellente necessità del compimento
    dell'atto, quanto il volontario, indebito rifiuto di attivarsi da parte dell'agente.
    L'autore del fatto deve rappresentarsi e volere la realizzazione di un evento
    "contra ius". Il ricorrente a sua giustificazione adduce di avere valutato che la
    situazione come riferito dall'albergatore non fosse grave ed urgente tale da
    imporre il suo tempestivo e improcrastinabile intervento in loco. I giudici di
    appello non hanno svolto un'analisi approfondita degli elementi costitutivi del
    reato.

    4) mancata applicazione dell'art. 131 bis cod. pen. Si tratta di un motivo già
    proposto innanzi il giudice di primo grado e del pari respinto in appello. Il
    ricorrente deduce l'insussistenza di una situazione di emergenza, l'assenza di un
    pregiudizio irreparabile per i pazienti, tanto che anche il successivo controllo del
    118 aveva evidenziato semplici disturbi gastrointestinali, l'esigenza di non
    lasciare il posto di servizio scoperto, il successivo (asserito) sopralluogo presso
    l'hotel da cui però l'imputato si sarebbe allontanato avendo constatato la
    presenza di operatori sanitari del 118, l'insussistenza dell'elemento soggettivo
    del reato non essendo ravvisabile in capo al dott. xxxxx la consapevolezza e
    volontà di rifiutare indebitamente un atto del suo ufficio;

    5) mancanza di motivazione in relazione al diniego delle circostanze
    attenuanti generiche e della richiesta di conversione della pena detentiva nella
    corrispondente pena pecuniaria, poiché non sono stati addotti elementi da cui
    desumere il percorso logico che ha condotto al rigetto di entrambe le richieste
    sopra formulate.

    CONSIDERATO IN DIRITTO

    1. La sentenza impugnata risulta del tutto immune dai vizi denunciati dal
    ricorrente ed i motivi proposti devono essere riconosciuti palesemente infondati o
    indeducibili in questa sede.

    2. Quanto al primo motivo, alla stregua della ricostruzione fattuale della
    vicenda, operata dai giudici di merito, come sopra sintetizzata, correttamente
    sono stati ravvisati nella condotta del prevenuto gli estremi integrativi del reato
    di cui all'art. 328 comma 1 cod. pen., il quale punisce, tra l'altro, il rifiuto di un
    atto dovuto per ragioni di sanità, allorché questo debba essere compiuto senza
    ritardo. È rimasto storicamente accertato che l'imputato, medico di turno di notte
    presso la postazione di Piazzaxxxxx, richiesto dall'albergatore xxxxx di
    intervenire presso il proprio albergo, non ebbe a recarsi all'hotel Cristallo di
    Foppolo (BG) per visitare otto soggetti, ivi ospitati, di cui sei bambini stranieri,
    che accusavano malesseri.

    Non risultano elementi di riscontro dell'attestazione, dal sanitario redatta,
    secondo cui lo stesso aveva annotato di avere deciso comunque di recarsi
    all'albergo per valutare lo stato di salute dei pazienti.

    Al suo arrivo alle ore 2.05, avendo preso atto della presenza di ambulanze ed auto medica, sarebbe tornato
    indietro; tuttavia non risulta che alcuno lo abbia incontrato o che l'imputato si sia
    fatto vedere per comprovare la sua presenza presso l'albergo dal quale era stato
    chiamato. Le deduzioni sviluppate nel primo motivo si risolvono in una
    ricostruzione alternativa dei fatti che entra inammissibilmente nel merito delle
    valutazioni discrezionali della Corte di appello, convergenti con quelle del Giudice
    di primo grado, e sviluppate, senza incorrere in fallace logiche, sulla base di
    massime di esperienza plausibili e pertinenti al caso in esame.

    3. Nella specie, l'obbligo del xxxxx di effettuare la visita domiciliare richiestagli, trova la sua fonte normativa nel d.P.R. n. 41 del 1991, il quale, all'art. 13, dispone che il medico che effettua il servizio di guardia deve rimanere a disposizione "per effettuare gli interventi domiciliari a livello territoriale che gli saranno richiesti" e, durante il turno di guardia, "è tenuto ad effettuare al più presto tutti gli interventi che gli siano richiesti direttamente dagli utenti".
    Orbene, è vero che, in linea di principio, non può negarsi al sanitario il compito di valutare, sulla base della sintomatologia riferitagli, la necessità o meno di visitare il paziente. È anche vero, tuttavia, che una tale discrezionalità può essere sindacata dal giudice, alla luce degli elementi acquisiti agli atti e sottoposti al suo esame, onde accertare se la valutazione del sanitario sia stata correttamente effettuata, oppure se la stessa costituisca un mero pretesto per giustificare l'inadempimento dei propri doveri (Sez. 6, n.12143 del 11/02/2009, Rv. 242922-01; Sez. 6, n. 20056 del 07/04/2008, Rv. 240070-01)
    .


    Secondo la giurisprudenza di legittimità, integra il delitto di rifiuto di atti d'ufficio la condotta del sanitario in servizio di guardia medica che non aderisca alla richiesta di intervento domiciliare urgente nella persuasione a priori della "enfatizzazione" dei sintomi denunciati dal paziente, posto che l'esercizio del potere-dovere di valutare la necessità della visita sulla base della sintomatologia esposta, sicuramente spettante al professionista, è comunque sindacabile da parte del giudice al fine di accertare se esso non trasmodi nell'assunzione di deliberazioni ingiustificate ed arbitrarie, scollegate dai basilari elementi di ragionevolezza desumibili dal contesto storico del singolo episodio e dai protocolli sanitari applicabili (Sez. 6, n. 23817 del 30/10/2012, Rv. 255715-01). Il primo motivo è dunque privo di qualsivoglia fondamento giuridico e va dichiarato inammissibile.

    4. Con riguardo al secondo motivo, la Corte di Appello, nel disattendere le
    argomentazioni difensive volte a sostenere la legittimità della scelta
    dell'imputato di non effettuare la visita domiciliare richiestagli, ha ritenuto che
    durante la lunga telefonata protrattasi per oltre tredici minuti, il medico di turno
    "non aveva formulato alcuna domanda specifica" riguardante le condizioni dei
    bambini che avvertivano malesseri e, certamente, la pluralità dei soggetti
    indisposti, la giovane età, l'essere ospitati in Italia in assenza dei genitori e senza
    conoscere la lingua, dovevano imporre al medico di recarsi presso l'albergo per
    constatare di persona la presenza di patologie anche temporanee, a carico dei
    giovani pazienti.

    Il dott. xxxxx, invece, ha valutato, insindacabilmente, che i malesseri di
    nausea e vomito "non costituivano un'emergenza di natura oggettiva"
    sostenendo che l'interlocutore aveva tenuto "un tono inutilmente suggestionato
    ed allarmato". Si tratta ancora una volta di una ricostruzione alternativa in fatto,
    proposta dal ricorrente, già respinta dai giudici di merito, in contrasto con
    l'orientamento giurisprudenziale sopra riportato e, come tale, inammissibile.

    5. Con il terzo motivo si deduce l'assenza dell'elemento psicologico del reato
    di cui all'art. 328 cod. pen. sul presupposto che il ricorrente abbia agito in
    buona fede e nella convinzione dell'inesistenza di ragioni di urgenza che gli
    imponessero di effettuare una visita all'albergo dei soggetti in stato di malessere.
    Con pieno fondamento, ambedue le decisioni di merito hanno individuato nel
    singolare modo di procedere del sanitario, le condizioni integrative della
    contestata fattispecie di rifiuto di un doveroso atto di ufficio. Soluzione, per altro,
    perfettamente in linea con la giurisprudenza di questa Corte regolatrice in
    casistiche affatto omologhe a quella in esame. La fattispecie integra un reato di
    pericolo che si perfeziona ogni volta in cui sia denegato un atto non ritardabile e
    dovuto in rapporto alla specifica qualità del pubblico ufficiale agente (ex plurimis:
    Sez. 6, n. 34471 del 15.5.2007 Rv. 237795; Sez. 6, n. 35324 del 28.5.2008, Rv.
    241250).

    In tale ultima prospettiva le professioni di buona fede addotte dal ricorrente
    si mostrano, oltre che non dirimenti proprio rispetto alla natura di reato di
    pericolo della fattispecie ascrittagli, implausibili sul piano della ricostruzione
    dell'elemento soggettivo del reato, avuto riguardo all'insuperabile dato
    probatorio riveniente nel tempestivo intervento del servizio del 118 (nella stessa
    situazione sottoposta al medico di turno) e fipl tentativo di rabberciare un
    supposto postumo sopralluogo non documentato (se non con una personale
    autocertificazione di intervento di fatto non effettuato)
    . È invero singolare e
    contraddittoria la ricostruzione del profilo psicologico offerta dal medico: da un
    lato ritiene che non esistono le ragioni di urgenza per intervenire, dall'altro con
    un ripensamento successivo, si sarebbe diretto all'albergo per constatare che
    altri al posto suo erano sopraggiunti con maggiore tempestività, senza
    personalmente sincerarsi della situazione che gli era stata descritta
    (ritenuta
    dall'imputato particolarmente "enfatizzata"), evitando accuratamente di farsi
    vedere: si tratta di elementi, già messi in luce dai giudici di merito, che
    escludono integralmente la addotta buona fede del ricorrente. Anche questo
    motivo non trova fondamento nella realtà processuale descritta nelle pronunce di
    merito.

    6. Con il quarto motivo si insiste nella richiesta di applicazione dell'art. 131
    bis cod. pen.. Rimane tuttavia generico il motivo di impugnazione a fronte della
    mancanza di elementi di segno positivo da valorizzare di fronte alla gravità del
    fatto desunto dall'entità del pericolo, mostrando i giudici di merito di avere
    valutato, in termini di offensività, le concrete modalità della condotta e la
    esposizione a pericolo che essa ha comportato, che, per consentire la
    meritevolezza della esclusione dalla punibilità, deve connotarsi come di
    particolare tenuità, rispetto al bene giuridico protetto dalla norma incriminatrice
    (nella specie, reato contro la pubblica amministrazione).

    7. Con il quinto motivo si censura la mancata applicazione delle circostanze
    attenuanti generiche ed il mancato accoglimento della richiesta di conversione
    della pena detentiva nella corrispondente pena pecuniaria.
    Anche con riferimento alla considerazione delle "condizioni economiche
    dell'imputato che avrebbero scarsa efficacia afflittiva e che la sola pena
    pecuniaria sarebbe certamente inadeguata alla gravità del fatto", la difesa non
    contrappone validi elementi da prendere in considerazione per un giudizio
    diverso. Giova, sul tema, ricordare la pronuncia della Corte di Cassazione a
    Sezioni Unite (Sez. U, n. 24476 del 22/04/2010, Rv. 247274); in tale pronuncia,
    la Corte ha chiaramente affermato che la ratio delle pene sostitutive ha natura
    premiale e che il giudice, nell'esercitare il suo potere discrezionale di sostituire le
    pene detentive brevi con le pene pecuniarie corrispondenti, con la
    semidetenzione o con la libertà controllata, deve tenere conto dei criteri indicati
    nell'art. 133 cod. pen., tra i quali è compreso quello delle "condizioni di vita
    individuale, familiare e sociale dell'imputato". A tale principio si è attenuto il
    giudice dell'impugnazione così soddisfacendo l'onere di motivazione impostogli.

    L'ultimo motivo si appalesa dunque aspecifico.
    Dalla declaratoria di inammissibilità del ricorso consegue, a norma dell'art.
    616 cod. proc. pen., la condanna del ricorrente, oltre che al pagamento delle
    spese del procedimento, anche a versare una somma, che si ritiene congruo
    determinare in 2.000,00 euro.

    P.Q.M.
    Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle
    spese processuali e della somma di euro 2.000,00 in favore della cassa delle
    ammende.

    Così deciso il 0/(2019

    www.italgiure.giustizia.it/
  4. .

    Legittimo posticipare il Tfr se la pensione è anticipata


    Il pagamento differito e dilazionato del Tfr ai dipendenti pubblici che vanno in pensione anticipata è legittimo. Tuttavia la Corte costituzionale rileva aspetti problematici per quanto riguarda il differimento del trattamento di fine rapporto in caso di pensione raggiunta per limiti di età o di servizio o per collocamento a riposo d’ufficio. Con la sentenza 159/2019 la Consulta si è espressa in merito al dubbio di costituzionalità dell’articolo 3, comma 2, del Dl 79/1997.

    Sentenza n. 159 del 25/6/2019 Pubblico impiego – lavoratrice in pensione per anzianità – trattamento di fine rapporto – dilazione e rateizzazione per lavoratori che non hanno raggiunto i limiti di età o di servizio previsti dagli ordinamenti di appartene

    www.cortecostituzionale.it/actionS...019&numero=159#

    www.aranagenzia.it/sezione-giuridi...-appartene.html

    https://www.studiocataldi.it/articoli/3514...gli-statali.asp

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    SENTENZA N. 159

    ANNO 2019


    REPUBBLICA ITALIANA
    IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
    LA CORTE COSTITUZIONALE

    composta dai signori: Presidente: Giorgio LATTANZI; Giudici : Aldo CAROSI, Marta CARTABIA, Mario Rosario MORELLI, Giancarlo CORAGGIO, Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI,

    ha pronunciato la seguente
    SENTENZA

    nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 3, comma 2, del decreto-legge 28 marzo 1997, n. 79 (Misure urgenti per il riequilibrio della finanza pubblica), convertito, con modificazioni, nella legge 28 maggio 1997, n. 140, e dell’art. 12, comma 7, del decreto-legge 31 maggio 2010, n. 78 (Misure urgenti in materia di stabilizzazione finanziaria e di competitività economica), convertito, con modificazioni, nella legge 30 luglio 2010, n. 122, promosso dal Tribunale ordinario di Roma, in funzione di giudice del lavoro, nel giudizio instaurato da Amelia Capilli contro l’Istituto nazionale della previdenza sociale (INPS), con ordinanza del 12 aprile 2018, iscritta al n. 136 del registro ordinanze 2018 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 40, prima serie speciale, dell’anno 2018.
    Visti gli atti di costituzione di Amelia Capilli e dell’INPS, nonché gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri e della Federazione Confsal-Unsa;
    udito nella udienza pubblica del 17 aprile 2019 il Giudice relatore Silvana Sciarra;
    uditi gli avvocati Antonio Mirra per Amelia Capilli, Flavia Incletolli per l’INPS e l’avvocato dello Stato Gianfranco Pignatone per il Presidente del Consiglio dei ministri.

    Ritenuto in fatto

    1.– Il Tribunale ordinario di Roma, in funzione di giudice del lavoro, con ordinanza del 12 aprile 2018, iscritta al n. 136 del registro ordinanze 2018, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 36 della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale dell’art. 3, comma 2, del decreto-legge 28 marzo 1997, n. 79 (Misure urgenti per il riequilibrio della finanza pubblica), convertito, con modificazioni, nella legge 28 maggio 1997, n. 140, e dell’art. 12, comma 7, del decreto-legge 31 maggio 2010, n. 78 (Misure urgenti in materia di stabilizzazione finanziaria e di competitività economica), convertito, con modificazioni, nella legge 30 luglio 2010, n. 122, nella parte in cui dispongono il pagamento differito e rateale dei trattamenti di fine servizio spettanti ai dipendenti pubblici.
    1.1.– Il rimettente espone di dovere decidere sul ricorso proposto da Amelia Capilli, dipendente del Ministero della giustizia, «in pensione per anzianità dal 1–9–2016», che ha chiesto il pagamento dell’indennità di buonuscita senza dilazioni e rateizzazioni e comunque con il riconoscimento degli interessi e della rivalutazione dal dovuto al saldo. In virtù delle disposizioni censurate, la parte ricorrente nel giudizio principale percepirebbe l’indennità di buonuscita «in maniera rateale e dilazionata, con pagamento dell’ultima rata al settembre del 2020».
    In punto di rilevanza delle questioni sollevate, il rimettente osserva che solo la declaratoria di illegittimità costituzionale dell’art. 3, comma 2, del d.l. n. 79 del 1997 e dell’art. 12, comma 7, del d.l. n. 78 del 2010, renderebbe «illegittima la dilazione e rateizzazione della indennità di buonuscita» e condurrebbe all’accoglimento delle pretese della parte ricorrente.
    1.2.– Nell’avvalorare la non manifesta infondatezza delle questioni proposte, il giudice a quo muove dal rilievo che «il trattamento per la cessazione del rapporto di lavoro» si configura come retribuzione, seppure differita, e che consente al lavoratore di fare fronte alle «principali necessità di vita» e agli impegni finanziari già assunti.
    La disciplina in esame, nel prevedere «una corresponsione dilazionata e rateale del trattamento di fine rapporto» per i soli dipendenti delle pubbliche amministrazioni, contravverrebbe al principio di parità di trattamento (art. 3 Cost.). Il trattamento deteriore riservato ai dipendenti pubblici, difatti, non potrebbe rinvenire alcuna ragionevole giustificazione nella specialità del rapporto di lavoro pubblico.
    La disciplina in esame contrasterebbe con l’art. 36 Cost., che tutela il diritto del lavoratore di percepire una retribuzione proporzionata alla quantità e alla qualità del lavoro svolto, idonea «a garantire al lavoratore una utilità congrua rispetto al valore professionale dell’attività prestata». Un pagamento dilazionato comprometterebbe l’adeguatezza stessa della retribuzione.
    Il legislatore, in violazione del principio di ragionevolezza (art. 3 Cost.), avrebbe bilanciato in modo arbitrario il «diritto tutelato dall’art. 36 Cost. con l’interesse collettivo al contenimento della spesa pubblica».
    Il rimettente, che pure reputa legittime restrizioni generali, destinate a operare, in una dimensione solidaristica e in un ciclo pluriennale, per l’intero comparto pubblico, osserva che l’intervento del legislatore deve fondarsi sulla «particolare gravità della situazione economica e finanziaria del momento» e collocarsi «in un disegno organico improntato a una dimensione programmatica».
    Nel caso di specie, il giudice a quo denuncia una «protrazione, in via permanente, della dilazione e scaglionamento» dei trattamenti di fine servizio, che rischierebbe di «oscurare il criterio di proporzionalità della retribuzione, riferito alla quantità e alla qualità del lavoro svolto» (si menziona la sentenza n. 178 del 2015).
    2.– Con atto depositato il 30 ottobre 2018, si è costituita in giudizio Amelia Capilli, parte ricorrente nel giudizio principale, e ha chiesto di accogliere le questioni di legittimità costituzionale sollevate dal Tribunale ordinario di Roma.
    La parte costituita argomenta che per i «soli dipendenti in rapporto di pubblico impiego», senza alcuna giustificazione apprezzabile, si dilatano i tempi di erogazione del trattamento di fine servizio, con evidente disparità di trattamento rispetto ai lavoratori privati.
    Il pagamento in ritardo dei trattamenti di fine servizio, che costituiscono retribuzione differita, si porrebbe in contrasto anche con il principio di proporzionalità della retribuzione, sancito dall’art. 36 Cost.
    L’esigenza di contenimento della spesa pubblica potrebbe giustificare un intervento temporaneo e legato a una situazione di «emergenza contabile», e non già una misura definitiva, che, in mancanza di ogni meccanismo compensativo, «determina una perdita patrimoniale certa».
    Peraltro, il differimento disposto dalle previsioni censurate si tradurrebbe in un mero rinvio della spesa, che svilirebbe «la capacità autorganizzativa» dell’amministrazione datrice di lavoro e lederebbe l’affidamento «del pubblico dipendente nell’ordinario sviluppo economico della carriera, comprensivo del trattamento collegato alla cessazione del rapporto di impiego».
    3.– L’Istituto nazionale della previdenza sociale (INPS) si è costituito in giudizio con atto depositato il 26 ottobre 2018 e ha chiesto di dichiarare non fondate le questioni di legittimità costituzionale.
    Le disposizioni censurate supererebbero «lo scrutinio “stretto” di costituzionalità», in quanto rispetterebbero tutte le condizioni che questa Corte ha enucleato nella sentenza n. 173 del 2016 con riguardo al contributo di solidarietà sui trattamenti pensionistici più elevati.
    Anche nel caso di specie, il sacrificio imposto ai dipendenti pubblici sarebbe improntato alla solidarietà previdenziale, in quanto concorrerebbe a «finanziare gli oneri del sistema previdenziale, peraltro in un contesto di grave crisi del sistema stesso», e sarebbe rispettoso del principio di proporzionalità, alla luce della sua incidenza «sui trattamenti più elevati».
    Non sussisterebbe la denunciata violazione degli artt. 3 e 36 Cost.
    Il trattamento di fine servizio, gestito e liquidato dall’INPS e finanziato con un contributo previdenziale obbligatorio, non potrebbe essere equiparato al trattamento di fine rapporto disciplinato dall’art. 2120 del codice civile e sarebbe comunque – rispetto a quest’ultimo – più vantaggioso.
    Quanto alla conformità all’art. 36 Cost., non dovrebbe essere valutata con riguardo a singoli istituti, ma alla stregua di tutte le voci del trattamento complessivo del lavoratore, «peraltro in un arco temporale di una qualche significativa ampiezza».
    4.– Con atto depositato il 30 ottobre 2018, è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, e ha chiesto di dichiarare non fondate le questioni di legittimità costituzionale.
    Il differimento dell’erogazione delle indennità di buonuscita e di altre indennità analoghe non pregiudicherebbe la garanzia sancita dall’art. 36 Cost., in quanto le indennità spettanti ai dipendenti pubblici non sarebbero negate o decurtate, ma soltanto, e soltanto in parte, differite mediante un meccanismo che «privilegia i soggetti con importi di prestazione più bassi». Tale meccanismo, destinato a operare per tutti i dipendenti pubblici e ispirato a «esigenze di solidarietà sociale», sarebbe volto «a fronteggiare la grave situazione di crisi della finanza pubblica insorta nella recente fase del processo di integrazione europea».
    Non si ravviserebbe, inoltre, alcuna ingiustificata disparità di trattamento tra dipendenti pubblici e dipendenti privati. La disciplina applicabile ai due settori sarebbe, difatti, eterogenea e, con riguardo al lavoro prestato alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni, si apprezzerebbero inderogabili esigenze di equilibrio finanziario, estranee all’àmbito del lavoro privato. Peraltro, i trattamenti di fine servizio dei dipendenti pubblici, quanto a criteri di computo e a modalità di finanziamento, presenterebbero peculiarità tali da renderli incomparabili «rispetto agli omologhi istituti prettamente privatistici».
    5.– È intervenuta ad adiuvandum, con atto depositato il 30 ottobre 2018, la Federazione Confsal-Unsa, per chiedere l’accoglimento delle questioni di legittimità costituzionale.
    La federazione ha sostenuto di essere titolare di un interesse diretto, attuale e concreto, connesso alla posizione soggettiva dedotta nel giudizio principale, e di essere, in tale veste, legittimata all’intervento.
    6.– In prossimità dell’udienza, l’INPS ha depositato una memoria illustrativa, per svolgere nuove argomentazioni a sostegno delle conclusioni già formulate.
    L’INPS ha ribadito le differenze che permangono tra l’indennità di buonuscita e il trattamento di fine rapporto regolato dall’art. 2120 cod. civ., differenze che si riscontrerebbero anche per il trattamento di fine rapporto disciplinato in àmbito pubblicistico dal decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 20 dicembre 1999 (Trattamento di fine rapporto e istituzione dei fondi pensione dei pubblici dipendenti). Inoltre, il carattere più vantaggioso dell’indennità di buonuscita escluderebbe l’irragionevolezza della scelta di differirne la liquidazione, quando la cessazione del rapporto di lavoro non avvenga per inabilità o decesso.
    L’INPS ha soggiunto che le previsioni censurate si collocano in un articolato insieme di misure, volte a ridurre la spesa corrente dell’intero settore pubblico, e sono ispirate alla solidarietà previdenziale. I lavoratori in servizio, in virtù di un sistema a ripartizione, finanzierebbero «il pagamento del trattamento di fine servizio per coloro che vengono collocati a riposo», in una prospettiva di «mutualità intergenerazionale».
    L’accoglimento delle questioni di legittimità costituzionale implicherebbe per le casse dell’istituto, già chiamato a fronteggiare la complessa successione all’Istituto nazionale di previdenza e assistenza per i dipendenti dell’amministrazione pubblica (INPDAP), un onere oltremodo gravoso.
    L’INPS, difatti, dovrebbe farsi carico del pagamento immediato di tutte le cessazioni per pensionamento anticipato intervenute nel 2017 e nel 2018, dell’integrazione degli importi relativi alle cessazioni del 2017 e del 2018 e del pagamento di tutte le rate non ancora corrisposte, destinate a scadere nel 2019 e nel 2021.
    Sulla base di tali rilievi, l’INPS conclude che le disposizioni censurate attuano «un corretto bilanciamento tra le esigenze finanziarie dello Stato e, in particolare, dell’Ente previdenziale e il diritto ad una tutela previdenziale adeguata del dipendente pubblico, al fine di realizzare quel risparmio di spesa richiesto al nostro Paese dagli impegni assunti in sede Comunitaria».
    7.– All’udienza pubblica del 17 aprile 2019, le parti costituite e il Presidente del Consiglio dei ministri hanno ribadito le conclusioni formulate nei rispettivi scritti difensivi.

    Considerato in diritto

    1.– Con ordinanza del 12 aprile 2018 (reg. ord. n. 136 del 2018), il Tribunale ordinario di Roma, in funzione di giudice del lavoro, dubita della legittimità costituzionale dell’art. 3, comma 2, del decreto-legge 28 marzo 1997, n. 79 (Misure urgenti per il riequilibrio della finanza pubblica), convertito, con modificazioni, nella legge 28 maggio 1997, n. 140, e dell’art. 12, comma 7, del decreto-legge 31 maggio 2010, n. 78 (Misure urgenti in materia di stabilizzazione finanziaria e di competitività economica), convertito, con modificazioni, nella legge 30 luglio 2010, n. 122, in riferimento agli artt. 3 e 36 della Costituzione.
    Il rimettente assume che le disposizioni censurate, nel prevedere un pagamento differito e rateale dei trattamenti di fine servizio, comunque denominati, spettanti ai dipendenti pubblici, si pongano in contrasto con il principio di eguaglianza (art. 3 Cost.). I lavoratori del settore pubblico sarebbero assoggettati a un regime deteriore rispetto ai lavoratori del settore privato, i quali ottengono senza ritardo l’erogazione del trattamento di fine rapporto. La denunciata sperequazione non troverebbe una giustificazione ragionevole nella specialità del rapporto di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni.
    La «corresponsione dilazionata e rateale» dei trattamenti di fine servizio, disposta «in via generale, permanente e definitiva», sarebbe, per altro verso, lesiva del principio di ragionevolezza (art. 3 Cost.) e del diritto di percepire una retribuzione proporzionata alla quantità e alla qualità del lavoro svolto (art. 36 Cost.).
    La «particolare gravità della situazione economica e finanziaria del momento» potrebbe giustificare esclusivamente «un intervento temporaneo e mirato sui trattamenti di fine rapporto», applicabile «all’intero comparto pubblico», secondo le coordinate di «un disegno organico improntato a una dimensione programmatica», che si proietta nell’arco pluriennale delle politiche di bilancio. Nondimeno, tale intervento non potrebbe risolversi in una «irragionevole protrazione, in via permanente, della dilazione e scaglionamento» dell’erogazione dei trattamenti di fine servizio.
    Un assetto così congegnato, che procrastina il pagamento dei trattamenti di fine servizio, contrasterebbe con il principio di proporzionalità della retribuzione alla quantità e alla qualità del lavoro prestato e ne comprometterebbe l’adeguatezza, in violazione dell’art. 36 Cost. Tali trattamenti, qualificabili come retribuzione differita, sarebbero corrisposti alla cessazione del rapporto di lavoro allo scopo di soddisfare le «principali necessità di vita (per esempio, acquisto di una casa, spese per il matrimonio di un figlio, necessità di cure mediche […])», legate anche all’esigenza di onorare altri impegni finanziari assunti.
    2.– Nel giudizio è intervenuta ad adiuvandum, con atto depositato il 30 ottobre 2018, la Federazione Confsal-Unsa.
    La federazione, che non riveste la qualità di parte del giudizio principale, ha fondato la legittimazione all’intervento sulla titolarità di un interesse diretto, attuale e concreto, connesso alla posizione soggettiva dedotta nel giudizio a quo.
    L’intervento è inammissibile.
    Per costante giurisprudenza di questa Corte, ribadita anche con riguardo alle richieste di intervento di soggetti rappresentativi di interessi collettivi o di categoria (fra le molte, ordinanza dibattimentale allegata alla sentenza n. 248 del 2018), la partecipazione al giudizio incidentale di legittimità costituzionale è circoscritta, di norma, alle parti del giudizio a quo, oltre che al Presidente del Consiglio dei ministri e, nel caso di legge regionale, al Presidente della Giunta regionale (artt. 3 e 4 delle Norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale).
    A tale disciplina è possibile derogare ‒ senza contraddire il carattere incidentale del giudizio di costituzionalità ‒ soltanto a favore di soggetti terzi che siano titolari di un interesse qualificato, immediatamente inerente al rapporto sostanziale dedotto in giudizio e non semplicemente regolato, al pari di ogni altro, dalla norma o dalle norme oggetto di censura (fra le molte, sentenza n. 153 del 2018, punto 3. del Considerato in diritto). In tale prospettiva, un interesse qualificato sussiste allorché si configuri una «posizione giuridica suscettibile di essere pregiudicata immediatamente e irrimediabilmente dall’esito del giudizio incidentale» (ordinanza dibattimentale allegata alla sentenza n. 194 del 2018).
    La Federazione Confsal-Unsa non vanta un interesse qualificato, ma soltanto «un mero indiretto, e più generale, interesse connesso agli scopi statutari della tutela degli interessi economici e professionali degli iscritti» (sentenza n. 77 del 2018, punto 4. del Considerato in diritto, con riguardo all’intervento della Confederazione generale italiana del lavoro), che non vale a rendere ammissibile l’intervento spiegato.
    3.– Allo scopo di definire il tema del decidere rimesso all’esame di questa Corte, occorre delineare i tratti salienti della disciplina riguardante la liquidazione dei trattamenti di fine servizio e le particolarità della fattispecie concreta che ha dato origine al dubbio di costituzionalità.
    3.1.– L’art. 3, comma 2, del d.l. n. 79 del 1997 fissa i termini per la liquidazione dei «trattamenti di fine servizio, comunque denominati», spettanti ai dipendenti delle pubbliche amministrazioni, oggi definite dall’art. 1, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 (Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche), e al personale in regime di diritto pubblico di cui all’art. 3, commi 1 e 2, del d.lgs. n. 165 del 2001.
    Alla liquidazione l’ente erogatore provvede «decorsi ventiquattro mesi dalla cessazione del rapporto di lavoro e, nei casi di cessazione dal servizio per raggiungimento dei limiti di età o di servizio previsti dagli ordinamenti di appartenenza, per collocamento a riposo d’ufficio a causa del raggiungimento dell’anzianità massima di servizio prevista dalle norme di legge o di regolamento applicabili nell’amministrazione, decorsi dodici mesi dalla cessazione del rapporto di lavoro». All’effettiva corresponsione si deve dar corso «entro i successivi tre mesi, decorsi i quali sono dovuti gli interessi».
    Al differimento della liquidazione dei trattamenti di fine servizio si affiancano le disposizioni in tema di pagamento rateale, introdotte dall’art. 12, comma 7, del d.l. n. 78 del 2010 con l’obiettivo di concorrere «al consolidamento dei conti pubblici attraverso il contenimento della dinamica della spesa corrente nel rispetto degli obiettivi di finanza pubblica previsti dall’Aggiornamento del programma di stabilità e crescita».
    L’originaria scansione dei pagamenti, modulata in una rata annuale per le indennità di fine servizio fino a 90.000,00 euro, in due rate annuali per le indennità oltre i 90.000,00 e fino ai 150.000,00 e in tre rate annuali per le indennità pari o superiori a 150.000,00 euro, sempre al lordo delle trattenute fiscali, è stata modificata dall’art. 1, comma 484, lettera a), della legge 27 dicembre 2013, n. 147, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge di stabilità 2014)».
    Per i dipendenti delle amministrazioni pubbliche, «come individuate dall’Istituto nazionale di statistica (ISTAT) ai sensi del comma 3 dell’articolo 1 della legge 31 dicembre 2009, n. 196», l’indennità di buonuscita, l’indennità premio di servizio, il trattamento di fine rapporto e «ogni altra indennità equipollente corrisposta una-tantum comunque denominata spettante a seguito di cessazione a vario titolo dall’impiego» sono oggi riconosciuti «in un unico importo annuale se l’ammontare complessivo della prestazione, al lordo delle relative trattenute fiscali, è complessivamente pari o inferiore a 50.000 euro» (lettera a), «in due importi annuali se l’ammontare complessivo della prestazione, al lordo delle relative trattenute fiscali, è complessivamente superiore a 50.000 euro ma inferiore a 100.000 euro» (lettera b) e «in tre importi annuali se l’ammontare complessivo della prestazione, al lordo delle relative trattenute fiscali, è complessivamente uguale o superiore a 100.000 euro» (lettera c).
    3.1.1.– Sulle questioni sollevate dal Tribunale ordinario di Roma non incidono le novità introdotte dall’art. 23 del decreto-legge 28 gennaio 2019, n. 4 (Disposizioni urgenti in materia di reddito di cittadinanza e di pensioni), convertito, con modificazioni, nella legge 28 marzo 2019, n. 26, che prevedono la facoltà di richiedere il finanziamento di una somma, pari all’importo massimo di 45.000,00 euro, dell’indennità di fine servizio maturata.
    Tale facoltà, accordata, tra l’altro, al ricorrere dei presupposti definiti dalla legge, ai «lavoratori dipendenti delle amministrazioni pubbliche di cui all’articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165», non altera i termini delle questioni proposte, che si incentrano sui tempi di corresponsione delle indennità di fine servizio, tempi che lo ius superveniens non interviene a modificare.
    3.2.– Il rimettente espone di dovere decidere sul ricorso proposto da una dipendente del Ministero della giustizia «in pensione per anzianità dal 1-9-2016», che percepisce il trattamento di fine servizio «in maniera rateale e dilazionata, con pagamento dell’ultima rata al settembre 2020».
    Nell’atto di costituzione, la parte ricorrente nel giudizio principale ha specificato che operano le modalità di corresponsione regolate dall’art. 12, comma 7, lettera c), del d.l. n. 78 del 2010, «mediante tre importi annuali successivi».
    Sui dati di fatto menzionati dal rimettente con riguardo al collocamento in pensione per anzianità il 1° settembre 2016 e al termine quadriennale per conseguire il saldo del trattamento di fine servizio, l’Istituto nazionale della previdenza sociale (INPS) e il Presidente del Consiglio dei ministri non hanno articolato rilievi critici di sorta.
    3.3.– Dalle indicazioni, peraltro non contestate, che offre il giudice a quo si può desumere in maniera inequivocabile che la parte ricorrente percepisce il trattamento di fine servizio «in tre importi annuali». Alla liquidazione del primo importo annuale l’ente erogatore non può che provvedere solo dopo che siano «decorsi ventiquattro mesi dalla cessazione del rapporto di lavoro» (art. 3, comma 2, del d.l. n. 79 del 1997). La ricorrente, difatti, è «in pensione per anzianità» e non beneficia dell’applicazione del più favorevole termine annuale, che il legislatore sancisce per la liquidazione dei trattamenti di fine servizio nelle diverse ipotesi di «cessazione dal servizio per raggiungimento dei limiti di età o di servizio previsti dagli ordinamenti di appartenenza, per collocamento a riposo d’ufficio a causa del raggiungimento dell’anzianità massima di servizio prevista dalle norme di legge o di regolamento applicabili nell’amministrazione».
    La necessità – riferita dal rimettente – di attendere quattro anni per il «pagamento» del trattamento di fine servizio discende dunque dall’applicazione congiunta delle disposizioni dell’art. 12, comma 7, lettera c), del d.l. n. 78 del 2010 e dell’art. 3, comma 2, del d.l. n. 79 del 1997, che stabiliscono, rispettivamente, il pagamento rateale in tre importi annuali e la liquidazione del primo importo annuale non prima del decorso di ventiquattro mesi dalla cessazione del rapporto di lavoro.
    4.– Alla luce di tali precisazioni, devono essere conseguentemente dichiarate inammissibili, per difetto di rilevanza, le questioni di legittimità costituzionale che vertono sull’art. 3, comma 2, del d.l. n. 79 del 1997, nella parte in cui individua un termine di dodici mesi per la liquidazione dei trattamenti di fine servizio nelle ipotesi di cessazione del rapporto di lavoro per raggiungimento dei limiti di età o di servizio o per collocamento a riposo d’ufficio a causa del raggiungimento dell’anzianità massima di servizio. Tale previsione non è applicabile al giudizio principale, rientrante invece nella autonoma disciplina che, per la liquidazione, contempla il termine di ventiquattro mesi dalla cessazione del rapporto di lavoro.
    Quanto all’art. 12, comma 7, del d.l. n. 78 del 2010, pur provvisto di portata generale e caratterizzato da previsioni tra loro concatenate di soglie crescenti, non può che essere scrutinato dalla peculiare angolazione che rileva nel giudizio principale.
    Devono essere dunque dichiarate inammissibili, per difetto di rilevanza, anche le questioni di legittimità costituzionale della normativa sul pagamento rateale delle indennità spettanti a seguito della cessazione dall’impiego, nella parte in cui si applica alle ipotesi – estranee alla cognizione del rimettente – di cessazione del rapporto di lavoro per raggiungimento dei limiti di età o di servizio o per collocamento a riposo d’ufficio a causa del raggiungimento dell’anzianità massima di servizio.
    Lo scrutinio di costituzionalità è dunque circoscritto alle disposizioni dell’art. 3, comma 2, del d.l. n. 79 del 1997, riguardanti il termine di liquidazione di ventiquattro mesi, e alla speculare disciplina del pagamento rateale dei trattamenti di fine servizio (art. 12, comma 7, del d.l. n. 78 del 2010), che si applica in tale specifica ipotesi.
    5.– Le questioni, così delimitate, non sono fondate, in relazione a tutti i profili che il rimettente ha prospettato.
    6.– Il giudice a quo denuncia, in primo luogo, un’arbitraria disparità di trattamento tra il settore pubblico e il settore privato, quanto ai tempi di liquidazione delle indennità di fine rapporto.
    La censura non è fondata.
    Per costante giurisprudenza di questa Corte – ricordata dallo stesso giudice rimettente – il lavoro pubblico e il lavoro privato «non possono essere in tutto e per tutto assimilati (sentenze n. 120 del 2012 e n. 146 del 2008) e le differenze, pur attenuate, permangono anche in séguito all’estensione della contrattazione collettiva a una vasta area del lavoro prestato alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni» (sentenza n. 178 del 2015, punto 9.2. del Considerato in diritto).
    Il lavoro pubblico rappresenta un aggregato rilevante della spesa di parte corrente, che, proprio per questo, incide sul generale equilibrio tra entrate e spese del bilancio statale (art. 81 Cost.). L’esigenza di esercitare un prudente controllo sulla spesa, connaturata all’intera disciplina del rapporto di lavoro pubblico ed estranea all’àmbito del lavoro privato, preclude il raffronto che il rimettente prospetta.
    Con riferimento alla liquidazione delle somme dovute, lo stesso giudice a quo, nell’accogliere nei limiti indicati le eccezioni di illegittimità costituzionale formulate dalla parte ricorrente, non propone un’integrale equiparazione delle indennità di fine rapporto vigenti nei settori pubblico e privato, ma prefigura il ripristino del termine di novanta giorni, stabilito per l’effettiva erogazione dell’indennità di buonuscita dall’art. 26, terzo comma, del decreto del Presidente della Repubblica 29 dicembre 1973, n. 1032 (Approvazione del testo unico delle norme sulle prestazioni previdenziali a favore dei dipendenti civili e militari dello Stato), così come modificato dall’art. 7 della legge 20 marzo 1980, n. 75 (Proroga del termine previsto dall’articolo 1 della legge 6 dicembre 1979, n. 610, in materia di trattamento economico del personale civile e militare dello Stato in servizio ed in quiescenza; norme in materia di computo della tredicesima mensilità e di riliquidazione dell’indennità di buonuscita e norme di interpretazione e di attuazione dell’articolo 6 della legge 29 aprile 1976, n. 177, sul trasferimento degli assegni vitalizi al Fondo sociale e riapertura dei termini per la opzione).
    Anche il rimettente, dunque, nell’evocare la pregressa disciplina sui termini di erogazione delle indennità di buonuscita, mostra di riconoscere la peculiarità del regime applicabile in tale materia al settore pubblico, in considerazione della preminente esigenza di ordinata e trasparente programmazione nell’impiego delle limitate risorse disponibili. Tanto basta per rendere ragione delle differenze censurate e per escludere la denunciata violazione dell’art. 3 Cost. sotto il profilo della dedotta disparità di trattamento.
    7.– Il secondo nucleo di censure, formulate con riferimento agli artt. 3 e 36 Cost., riguarda l’intrinseca irragionevolezza dei termini relativi alla liquidazione, che pregiudicherebbero il diritto del dipendente pubblico di percepire una retribuzione differita proporzionata alla quantità e qualità del lavoro prestato.
    In considerazione della finalità unitaria che ispira le disposizioni denunciate e del legame inscindibile che intercorre tra le censure di irragionevolezza e quelle di lesione della proporzionalità e dell’adeguatezza della retribuzione differita, esse devono essere esaminate congiuntamente. Tali censure non sono fondate.
    7.1.– Le indennità di fine rapporto, pur nella differente configurazione che hanno assunto nel volgere degli anni, si atteggiano come «una categoria unitaria connotata da identità di natura e funzione e dalla generale applicazione a qualunque tipo di rapporto di lavoro subordinato e a qualunque ipotesi di cessazione del medesimo» (sentenza n. 243 del 1993, punto 5. del Considerato in diritto).
    L’evoluzione normativa, «stimolata dalla giurisprudenza costituzionale» (sentenza n. 243 del 1993, punto 4. del Considerato in diritto), ha ricondotto le indennità di fine rapporto erogate nel settore pubblico al paradigma comune della retribuzione differita con concorrente funzione previdenziale, nell’àmbito di un percorso di tendenziale assimilazione alle regole dettate nel settore privato dall’art. 2120 del codice civile (decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 20 dicembre 1999, recante «Trattamento di fine rapporto e istituzione dei fondi pensione dei pubblici dipendenti»).
    Tale processo di armonizzazione, contraddistinto anche da un ruolo rilevante dell’autonomia collettiva (sentenza n. 213 del 2018), rispecchia la finalità unitaria dei trattamenti di fine rapporto, che si prefiggono di accompagnare il lavoratore nella delicata fase dell’uscita dalla vita lavorativa attiva.
    Nel settore pubblico, le indennità in esame presentano una natura retributiva, avvalorata dalla correlazione della misura delle prestazioni con la durata del servizio e con la retribuzione di carattere continuativo percepita in costanza di rapporto. Esse rappresentano il frutto dell’attività lavorativa prestata (sentenza n. 106 del 1996, punto 2.1. del Considerato in diritto) e costituiscono parte integrante del patrimonio del beneficiario, che spetta ai superstiti «nel caso di decesso del lavoratore in servizio» (sentenza n. 243 del 1997, punto 2.3. del Considerato in diritto).
    Le indennità sono corrisposte al momento della cessazione dal servizio allo scopo precipuo di «agevolare il superamento delle difficoltà economiche che possono insorgere nel momento in cui viene meno la retribuzione» (sentenza n. 106 del 1996, punto 2.1. del Considerato in diritto). In questo si coglie la funzione previdenziale che coesiste con la natura retributiva e rappresenta l’autentica ragion d’essere dell’erogazione delle indennità dopo la cessazione del rapporto di lavoro.
    7.2.– Il carattere di retribuzione differita, comune a tali indennità, le attira nella sfera dell’art. 36 Cost., che prescrive, per ogni forma di trattamento retributivo, la proporzionalità alla quantità e alla qualità del lavoro prestato e l’idoneità a garantire, in ogni caso, un’esistenza libera e dignitosa.
    La garanzia costituzionale della giusta retribuzione, proprio perché trascende la logica meramente sinallagmatica insita nei contratti a prestazioni corrispettive e investe gli stessi valori fondamentali dell’esistenza umana, si sostanzia non soltanto nella congruità dell’ammontare concretamente corrisposto, ma anche nella tempestività dell’erogazione. È tale tempestività che assicura «al lavoratore ed alla sua famiglia un’esistenza libera e dignitosa attraverso il soddisfacimento delle quotidiane esigenze di vita» (sentenza n. 82 del 2003, punto 2. del Considerato in diritto; nello stesso senso, sentenza n. 459 del 2000, punto 7. del Considerato in diritto).
    Anche per le indennità di fine rapporto, legate a una particolare e più vulnerabile stagione dell’esistenza umana, la garanzia costituzionale opera in tutta la pregnanza delle sue implicazioni. La funzione previdenziale di tali trattamenti, che sopperiscono alle molteplici necessità del lavoratore e della comunità di vita cui appartiene, rischia di essere vanificata da una liquidazione in tempi irragionevolmente protratti.
    Alla stregua dei princìpi richiamati, occorre dunque verificare se la disciplina dei tempi di pagamento apprestata dal legislatore sia conforme ai canoni di proporzionalità e di adeguatezza di cui all’art. 36 Cost. e attui un equilibrato componimento dei contrapposti interessi in gioco.
    Il sindacato devoluto a questa Corte postula la valutazione della globalità del trattamento retributivo (sentenza n. 213 del 2018, punto 8.1. del Considerato in diritto) e della complessiva disciplina in cui esso si colloca (sentenza n. 366 del 2006, punto 3. del Considerato in diritto) e non può non considerare la pluralità di variabili che vengono in rilievo nell’apprezzamento discrezionale del legislatore, vincolato a «tenere conto anche delle esigenze della finanza pubblica» (sentenza n. 91 del 2004, punto 4. del Considerato in diritto) e di quelle di razionale programmazione nell’impiego di risorse limitate.
    8.– La disciplina del pagamento rateale e differito delle indennità di fine rapporto, nei limiti oggi devoluti all’esame di questa Corte, riguarda i lavoratori che non hanno raggiunto i limiti di età o di servizio previsti dagli ordinamenti di appartenenza.
    Per costante giurisprudenza di questa Corte (da ultimo, sentenza n. 104 del 2018, punto 6.1. del Considerato in diritto), ben può il legislatore «disincentivare i pensionamenti anticipati (fra le molte, sentenza n. 416 del 1999, punto 4.1. del Considerato in diritto) e, in pari tempo, promuovere la prosecuzione dell’attività lavorativa mediante adeguati incentivi a chi rimanga in servizio e continui a mettere a frutto la professionalità acquisita, come questa Corte ha avuto occasione di affermare in riferimento alla valutazione dei particolari servizi prestati da dipendenti civili e militari dello Stato (sentenza n. 39 del 2018, punto 4.4. del Considerato in diritto) e in tema di coefficiente di trasformazione della contribuzione versata, più elevato per chi presti servizio più a lungo (sentenza n. 23 del 2017, punto 4.1. del Considerato in diritto)».
    Le scelte discrezionali adottate in tale àmbito dal legislatore, anche in un’ottica di salvaguardia della sostenibilità del sistema previdenziale, non possono tuttavia sacrificare in maniera irragionevole e sproporzionata i diritti tutelati dagli artt. 36 e 38 Cost.
    8.1.– Nel caso di specie, i limiti posti dai princìpi di ragionevolezza e di proporzione non sono stati valicati.
    Il termine di ventiquattro mesi per l’erogazione dei trattamenti di fine servizio, nelle ipotesi diverse dal raggiungimento dei limiti di età o di servizio, è stato introdotto già dall’art. 1, comma 22, lettera a), del decreto-legge 13 agosto 2011, n. 138 (Ulteriori misure urgenti per la stabilizzazione finanziaria e per lo sviluppo), convertito, con modificazioni nella legge 14 settembre 2011, n. 148.
    L’intervento del legislatore travalica l’obiettivo contingente di conseguire immediati e cospicui risparmi, puntualmente stimati dalla relazione tecnica allegata al disegno di legge di conversione del d.l. n. 138 del 2011, e si raccorda, in una prospettiva di più ampio respiro, a una consolidata linea direttrice della legislazione, che si ripromette di scoraggiare le cessazioni del rapporto di lavoro in un momento antecedente al raggiungimento dei limiti di età o di servizio. La misura restrittiva in esame si colloca dunque in una congiuntura di grave emergenza economica e finanziaria, che registra un numero cospicuo di pensionamenti in un momento anteriore al raggiungimento dei limiti massimi di età o di servizio.
    Nel caso oggi all’attenzione della Corte il differimento dell’erogazione dei trattamenti di fine servizio fa riscontro a una cessazione del rapporto di lavoro che può intervenire anche quando non sia ancora maturato il diritto alla pensione. Il trattamento più rigoroso si correla alla particolarità di un rapporto di lavoro che, per le ragioni più disparate, peraltro in prevalenza riconducibili a una scelta volontaria dell’interessato, cessa anche con apprezzabile anticipo rispetto al raggiungimento dei limiti di età o di servizio.
    La disciplina è graduata in funzione di tale elemento distintivo sul presupposto che, proprio con il raggiungimento dei limiti indicati, si manifestino in maniera più pressante i bisogni che le indennità di fine servizio mirano a soddisfare e che impongono tempi di erogazione più spediti.
    L’assetto delineato dal legislatore non solo è fondato su un presupposto non arbitrario, ma è anche temperato da talune deroghe per situazioni meritevoli di particolare tutela, come la «cessazione dal servizio per inabilità derivante o meno da causa di servizio, nonché per decesso del dipendente», che impone all’amministrazione competente, entro quindici giorni dalla cessazione dal servizio, di trasmettere la documentazione competente all’ente previdenziale, obbligato a corrispondere il trattamento «nei tre mesi successivi alla ricezione della documentazione» (art. 3, comma 5, del d.l. n. 79 del 1997).
    Il regime di pagamento differito, analizzato nel peculiare contesto di riferimento, nelle finalità e nell’insieme delle previsioni che caratterizzano la relativa disciplina, non risulta dunque complessivamente sperequato.
    8.2.– Le medesime considerazioni possono essere svolte per il pagamento rateale delle indennità di fine servizio, disciplinato dall’art. 12, comma 7, del d.l. n. 78 del 2010 e poi irrigidito dall’art. 1, comma 484, lettera a), della legge n. 147 del 2013.
    In questo caso l’ulteriore sacrificio imposto ai dipendenti delle pubbliche amministrazioni discende pur sempre da una cessazione anticipata dal servizio e nelle particolarità di tale fattispecie, appena passate in rassegna, rinviene la sua ragione giustificatrice.
    Il meccanismo introdotto dal legislatore prevede, inoltre, una graduale progressione delle dilazioni, via via più ampie con l’incremento delle indennità, ed è pertanto calibrato in modo da favorire i beneficiari dei trattamenti più modesti e da individuare, anche per questa via, un punto di equilibrio non irragionevole.
    8.3.– La disciplina censurata, esaminata nel suo complesso e riferita alla cessazione anticipata del rapporto di lavoro, contempera, allo stato, in modo non irragionevole i diversi interessi di rilievo costituzionale, con particolare attenzione a situazioni meritevoli di essere più intensamente protette.
    9.– Restano impregiudicate, in questa sede, le questioni di legittimità costituzionale della normativa che dispone il pagamento differito e rateale delle indennità di fine rapporto anche nelle ipotesi di raggiungimento dei limiti di età e di servizio o di collocamento a riposo d’ufficio a causa del raggiungimento dell’anzianità massima di servizio.
    Nonostante l’estraneità di questo tema rispetto all’odierno scrutinio, questa Corte non può esimersi dal segnalare al Parlamento l’urgenza di ridefinire una disciplina non priva di aspetti problematici, nell’àmbito di una organica revisione dell’intera materia, peraltro indicata come indifferibile nel recente dibattito parlamentare.
    La disciplina che ha progressivamente dilatato i tempi di erogazione delle prestazioni dovute alla cessazione del rapporto di lavoro ha smarrito un orizzonte temporale definito e la iniziale connessione con il consolidamento dei conti pubblici che l’aveva giustificata. Con particolare riferimento ai casi in cui sono raggiunti i limiti di età e di servizio, la duplice funzione retributiva e previdenziale delle indennità di fine rapporto, conquistate «attraverso la prestazione dell’attività lavorativa e come frutto di essa» (sentenza n. 106 del 1996, punto 2.1. del Considerato in diritto), rischia di essere compromessa, in contrasto con i princìpi costituzionali che, nel garantire la giusta retribuzione, anche differita, tutelano la dignità della persona umana.

    Per Questi Motivi
    LA CORTE COSTITUZIONALE

    1) dichiara inammissibile l’intervento spiegato dalla Federazione Confsal-Unsa;
    2) dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 3, comma 2, del decreto-legge 28 marzo 1997, n. 79 (Misure urgenti per il riequilibrio della finanza pubblica), convertito, con modificazioni, nella legge 28 maggio 1997, n. 140, nella parte in cui prevede che alla liquidazione dei trattamenti di fine servizio, comunque denominati, l’ente erogatore provveda «nei casi di cessazione dal servizio per raggiungimento dei limiti di età o di servizio previsti dagli ordinamenti di appartenenza, per collocamento a riposo d’ufficio a causa del raggiungimento dell’anzianità massima di servizio prevista dalle norme di legge o di regolamento applicabili nell’amministrazione, decorsi dodici mesi dalla cessazione del rapporto di lavoro», sollevate dal Tribunale ordinario di Roma, in funzione di giudice del lavoro, in riferimento agli artt. 3 e 36 della Costituzione, con l’ordinanza indicata in epigrafe;
    3) dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 12, comma 7, del decreto-legge 31 maggio 2010, n. 78 (Misure urgenti in materia di stabilizzazione finanziaria e di competitività economica), convertito, con modificazioni, nella legge 30 luglio 2010, n. 122, nella parte in cui prevede il pagamento rateale delle indennità spettanti a seguito di cessazione dall’impiego «nei casi di cessazione dal servizio per raggiungimento dei limiti di età o di servizio previsti dagli ordinamenti di appartenenza, per collocamento a riposo d’ufficio a causa del raggiungimento dell’anzianità massima di servizio prevista dalle norme di legge o di regolamento applicabili nell’amministrazione», sollevate dal Tribunale ordinario di Roma, in funzione di giudice del lavoro, in riferimento agli artt. 3 e 36 Cost., con l’ordinanza indicata in epigrafe;
    4) dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 3, comma 2, del d.l. n. 79 del 1997, come convertito nella legge n. 140 del 1997, nella parte in cui prevede che alla liquidazione dei trattamenti di fine servizio, comunque denominati, l’ente erogatore provveda «decorsi ventiquattro mesi dalla cessazione del rapporto di lavoro», e dell’art. 12, comma 7, del d.l. n. 78 del 2010, come convertito nella legge n. 122 del 2010, nella parte in cui prevede il pagamento rateale delle indennità spettanti a seguito di cessazione dall’impiego nelle ipotesi diverse dalla «cessazione dal servizio per raggiungimento dei limiti di età o di servizio previsti dagli ordinamenti di appartenenza, per collocamento a riposo d’ufficio a causa del raggiungimento dell’anzianità massima di servizio prevista dalle norme di legge o di regolamento applicabili nell’amministrazione», sollevate dal Tribunale ordinario di Roma, in funzione di giudice del lavoro, in riferimento agli artt. 3 e 36 Cost., con l’ordinanza indicata in epigrafe.
    Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 17 aprile 2019.
    F.to:
    Giorgio LATTANZI, Presidente
    Silvana SCIARRA, Redattore
    Roberto MILANA, Cancelliere
    Depositata in Cancelleria il 25 giugno 2019.
    Il Direttore della Cancelleria
    F.to: Roberto MILANA
  5. .
    La Cassazione conferma: il tempo dei vestizione/svestizione degli infermieri va retribuito come prestazione di lavoro. E spiega il perché

    Per i giudici della Cassazione (sezione lavoro, sentenza 17635/2019) si tratta di attività svolte nell'interesse dell'igiene pubblica che vanno retribuite essendo un obbligo imposto da esigenze superiori di sicurezza e igiene. LA SENTENZA.



    05 LUG - Per un infermiere indossare e togliersi la divisa di lavoro (camice, mascherina, protezioni ecc.) fa parte dell’orario di lavoro e come tale va retribuito.
    E’ questa una diatriba che ormai va avanti da tempo e che tutti i tribunali coinvolti hanno riconosciuto ai professionisti, fino a essere inserita come parte integrante dell’ultimo contratto.

    Ma se questo non bastasse ora interviene l’ennesima sentenza della Cassazione (17635/2019) con cui la Corte riconosce - e spiega e chiarisce il perché - che il tempo che gli infermieri impiegano per indossare e dismettere la divisa rientra nell'orario di lavoro va autonomamente retribuito, poiché si tratta di attività integrativa dell'obbligazione principale e funzionale al corretto espletamento dei doveri di diligenza preparatoria.

    La Cassazione è intervenuta questa volta per mettere la parola fine al contenzioso sorto tra alcuni infermieri e una Asl abruzzese in relazione al riconoscimento del diritto alla retribuzione del tempo impiegato per indossare e dismettere la divisa.

    Il fatto


    La richiesta degli infermieri era stata accolta dai giudici del Tribunale secondo cui per i professionisti indossare e dismettere la divisa di lavoro (camice, mascherina protettiva e così via) rappresenta un'attività obbligatoria, accessoria e propedeutica alla prestazione di lavoro.

    In questo senso, secondo il Tribunale, si tratta di attività dovuta “per ragioni di igiene”, da effettuarsi negli stessi ambienti dell'Azienda e non a casa, prima dell'entrata e dopo l'uscita dai relativi reparti, rispettivamente, prima e dopo i relativi turni di lavoro.

    La sentenza
    Sulla stessa lunghezza d’onda del tribunale, la Cassazione ha confermato il principio e respinto il ricorso della Asl, anche in continuità con altre precedenti pronunce (Cass. n. 3901/2019; Cass. n. 12935/2018; Cass. n. 27799/2017) in cui è stato ribadito che le attività di vestizione/svestizione sono comportamenti integrativi della obbligazione principale e funzionali al corretto espletamento dei doveri di diligenza preparatoria.

    Si tratta di attività, secondo la Cassazione, che non sono svolte nell'interesse dell'Azienda, ma dell'igiene pubblica e come tali devono ritenersi autorizzate da parte dell'Azienda stessa.

    Inoltre, per il lavoro all'interno delle strutture sanitarie, il tempo di vestizione e svestizione dà diritto alla retribuzione, essendo l’obbligo imposto dalle esigenze di sicurezza e igiene che riguardano sia la gestione del servizio pubblico sia la stessa incolumità del personale addetto.

    “Il più recente orientamento – si legge nella sentenza - rappresenta uno sviluppo del precedente indirizzo (del tutto in linea con il principio) ed una integrazione della relativa ricostruzione, ponendo l'accento sulla funzione assegnata all'abbigliamento, nel senso che l'eterodirezione può derivare dall'esplicita disciplina d'impresa ma anche risultare implicitamente dalla natura degli indumenti - quando gli stessi siano diversi da quelli utilizzati o utilizzabili secondo un criterio di normalità sociale dell'abbigliamento - o dalla specifica funzione che devono assolvere e così dalle superiori esigenze di sicurezza ed igiene riguardanti sia la gestione del servizio pubblico sia la stessa incolumità del personale addetto”.

    La sentenza, nel dare ragione agli infermieri, riconosce che “pur con definizioni non sempre coincidenti, essendosi fatto riferimento, in alcuni casi al concetto di 'eterodirezione implicita', in altri all'obbligo imposto dalle superiori esigenze di sicurezza ed igiene, discendente dall'interesse all'igiene pubblica, in altri ancora all'esistenza di 'autorizzazione implicita', l'orientamento della giurisprudenza di legittimità è, dunque, saldamente ancorato al riconoscimento dell'attività di vestizione/svestizione degli infermieri come rientrante nell'orario di lavoro e da retribuire autonomamente, qualora sia stata effettuata prima dell'inizio e dopo la fine del turno”.

    Soluzione questa in linea anche con la giurisprudenza comunitaria in tema di orario di lavoro (direttiva n. 2003/88/CE).

    Secondo la spiegazione che la Cassazione dà nella sentenza “ciò che rileva … è unicamente che le attività preparatorie di cui trattasi siano state svolte all'interno dell'orario di lavoro - e come tali retribuite - o piuttosto, come accertato dalla sentenza impugnata, in aggiunta e al di fuori dell'orario del turno, dovendo in tal caso essere autonomamente retribuite.
    Quanto all'effettuazione delle indicate prestazioni al di fuori del normale orario di lavoro (secondo la sentenza impugnata 'prima e dopo i relativi turni di lavoro’) la censura della ricorrente scivola, in modo inammissibile, sul piano dell'appezzamento del merito”.

    “Con riguardo, poi, alle invocate norme, di legge e di contratto collettivo, relative alla disciplina del lavoro straordinario – chiarisce ancora la sentenza - si è già evidenziato che si tratta di attività che, in quanto svolte nell'interesse del servizio pubblico oltre che a tutela dell'incolumità del personale addetto, devono ritenersi implicitamente autorizzate dall'Azienda ed anzi da essa imposte, potendo in mancanza l'Azienda rifiutare di ricevere la prestazione; dette attività avrebbero dovuto, pertanto, essere comprese all'interno del debito orario”.

    E la Corte di Cassazione sottolinea, respingendo il ricorso dell’Asl e dando ragione agli infermieri, che “l'obbligo di tale pagamento aggiuntivo (del tempo di vestizione/svestizione, appunto)non è collegato alla condanna alle spese, ma al fatto oggettivo - ed altrettanto oggettivamente insuscettibile di diversa valutazione - del rigetto integrale o della definizione in rito, negativa per l'impugnante, dell'impugnazione, muovendosi, nella sostanza, la previsione normativa nell'ottica di un parziale ristoro dei costi del vano funzionamento dell'apparato giudiziario o della vana erogazione delle, pur sempre limitate, risorse a sua disposizione”.

    http://www.quotidianosanita.it/lavoro-e-pr...ticolo_id=75543
  6. .
    Risarcimento del passeggero per incidente senza cinture di sicurezza
    6 Giugno 2019, 15:33 in Assicurazione Rc Auto
    di Emanuele Musollini

    In caso di incidente stradale, il conducente del veicolo risponde, anche penalmente in caso di morte o lesioni personali, dei danni patiti dai passeggeri, soprattutto se questi non indossano la cintura.

    Questo è l’orientamento delle ultime sentenze della Cassazione che affermano che è obbligo del conducente esigere che il terzo trasportato indossi la cintura di sicurezza, al contrario, in caso di incidente con colpa, può addirittura configurarsi il reato di lesioni o omicidio stradale.

    Ricordiamo però che anche il passeggero che non indossa la cintura si assume ed accetta il rischio e le conseguenze della sua scelta; infatti in caso di sinistro può venirgli addebitato un concorso di colpa con conseguente riduzione del risarcimento.

    Indice
    La responsabilità civile e il concorso di colpa nell’incidente senza cintura
    Reato di lesioni ed omicidio stradale in caso di passeggero senza cintura di sicurezza
    Il mancato uso delle cinture riduce il risarcimento ma non esclude la responsabilità del conducente
    Consulenza gratuita per risarcimento da incidente stradale
    Obbligo dell’uso della cintura di sicurezza e le sanzioni
    La responsabilità civile e il concorso di colpa nell’incidente senza cintura
    Secondo quanto stabilito dall’articolo 141 del Codice delle assicurazioni private, il risarcimento dei danni subiti dal passeggero di un veicolo sono a carico della compagnia d’assicurazioni del veicolo sul quale viaggiava al momento del sinistro; a prescindere dalle responsabilità dei conducenti coinvolti.

    Il conducente del veicolo è responsabile dei danni patiti dai propri trasportati qualora l’incidente sia dovuto ad una sua colpa.

    Tuttavia, come anche ribadito dalla Cassazione nella sentenza n.126 del 2016, quando il passeggero non indossa la cintura di sicurezza al momento del sinistro, scatta nei confronti di quest’ultimo un concorso di colpa.

    Il mancato utilizzo delle cinture di sicurezza comporta quindi una diminuzione dell’importo del risarcimento, di una percentuale pari alla responsabilità ravvisata nel danneggiato nel procurarsi i danni subiti.

    Nella sentenza sopracitata ad esempio al danneggiato è stato riconosciuto un 30% di colpa per non aver indossato le cinture di sicurezza al momento dell’incidente, con la conseguente riduzione in misura proporzionale del risarcimento.

    Tramite la perizia della dinamica dell’incidente e delle lesioni subite dal terzo trasportato è possibile constatare se lo stesso indossava o meno le cinture di sicurezza al momento della collisione.

    Nel caso in cui però l’infortunato fornisse prove testimoniali contrarie a quanto stabilito dalla ricostruzione dei periti, sarà compito del giudice valutarle e decidere se ritenerle o meno attendibili.

    In un’altra sentenza, la n.683 del 2016, la Corte di Appello di Milano ha ribadito il concetto secondo il quale, in caso di incidente stradale con feriti, è necessario valutare l’incidenza causale che il comportamento del passeggero del veicolo ha avuto negli effetti dannosi del sinistro.

    Nel caso appena citato, il terzo trasportato aveva subito a causa del sinistro delle lesioni di una certa entità; tuttavia dalla ricostruzione dell’incidente è stato ritenuto che il mancato utilizzo delle cinture di sicurezza da parte dello stesso abbia contribuito in maniera rilevante nelle conseguenze dannose della collisione.

    Secondo le perizie ed i giudici infatti, l’uso della cintura avrebbe sicuramente ridotto gli effetti dannosi del sinistro.

    I giudici hanno quindi ravvisato un concorso di colpa in capo al terzo trasportato, nella misura del 50% di responsabilità; di conseguenza anche il risarcimento per le macrolesioni subite dallo stesso è stato ridotto della stessa percentuale.



    Reato di lesioni ed omicidio stradale in caso di passeggero senza cintura di sicurezza
    Introdotti con la Legge n.41 del 2016 i reati di omicidio stradale e di lesioni stradali gravi o gravissime determinano una responsabilità penale in capo al conducente di un veicolo, qualora vengano riscontrate particolari violazioni delle norme del Codice della strada o un comportamento colposo dello stesso.

    Nella sentenza della Cassazione n.11429 del 2017, la Corte ha affermato che il conducente di un veicolo ha l’obbligo di esigere che il terzo trasportato indossi la cintura di sicurezza, in alternativa è tenuto a rifiutare il trasporto oppure a non iniziare o continuare la circolazione.

    Nel caso in esame la Corte decideva in merito ad un risarcimento danni per incidente stradale mortale, nel quale il passeggero sedeva nel sedile anteriore di un auto senza indossare la cintura e a causa dell’impatto era deceduto dopo esser stato sbalzato fuori dal veicolo.

    I conducenti dei veicoli coinvolti nel sinistro sono stati entrambi condannati per omicidio colposo; quindi anche quello del veicolo sul quale viaggiava il terzo trasportato deceduto a causa dello scontro.

    A quest’ultimo conducente infatti è stata addebitata la violazione dell’obbligo, in base alle regole di prudenza e diligenza, di esigere l’uso delle cinture di sicurezza da parte dei passeggeri di un veicolo; nonostante per la difesa ci fosse stata un’impossibilità di constatazione del loro utilizzo a causa del buio.

    Dichiarazione considerata però dalla Corte priva di qualsiasi pregio e quindi respinta.

    Ricordiamo però che, secondo anche quanto stabilito dalla Cassazione nel 2007 nella sentenza n.18177, in caso di sinistro stradale mortale, qualora venga ravvisata la mancata adozione delle cinture di sicurezza da parte della vittima, il risarcimento del danno da morte del congiunto in favore dei parenti è ridotto in misura proporzionale per cooperazione nel fatto colposo, secondo quanto stabilito dall’art.1227 del Codice civile.



    Il mancato uso delle cinture riduce il risarcimento ma non esclude la responsabilità del conducente
    Come detto, il conducente è sempre responsabile, seppur in concorso di colpa, dei danni subiti dal passeggero quando sono causati dal mancato utilizzo delle cinture di sicurezza.

    Principio riaffermato dalla Corte di Cassazione, nell’ordinanza n.2531 del 2019, in merito ad una richiesta di risarcimento danni da parte di un terzo trasportato rimasto ferito a causa di un sinistro.

    La compagnia assicurativa del veicolo si era costituita in giudizio dichiarando che le lesioni subite dal terzo trasportato si erano verificate per una sua esclusiva e determinante responsabilità, poiché non indossava la cintura di sicurezza al momento del sinistro.

    In Appello il risarcimento del danno biologico è stato ridotto del 30% in base al concorso di colpa ravvisato nella condotta del passeggero, mentre è stato escluso totalmente il risarcimento del danno patrimoniale, consistente nelle spese mediche per le terapie ortodontiche e protesiche, perché riconducibile all’esclusiva responsabilità del danneggiato stesso, per non aver indossato la cintura.

    Tuttavia la Cassazione ha chiarito che la condotta colposa del terzo trasportato danneggiato non può mai interrompere il nesso causale tra il comportamento del conducente del veicolo e la produzione del danno.

    Il mancato uso delle cinture di sicurezza da parte del passeggero può far scattare un concorso di colpa, ma in nessun caso un’esclusione totale della responsabilità in capo al vettore e del suo relativo obbligo al risarcimento, in quanto a quest’ultimo spetta in ogni caso il compito di assicurarsi che la circolazione del veicolo avvenga in condizioni di prudenza e sicurezza.

    Infatti, come più volte detto in questo articolo, il conducente è responsabile dell’adozione delle cinture di sicurezza da parte dei soggetti trasportati ed eventuali danni causati dal suo mancato utilizzo sono da imputare sia a lui, sia ai soggetti trasportati.

    In base a questi principi la Cassazione ha stabilito che anche il danno patrimoniale patito dal passeggero debba essere risarcito dalla compagnia d’assicurazione, riducendo però l’importo di una percentuale pari alla responsabilità ravvisata nel comportamento del trasportato nella produzione del danno (in questo caso il 30%).



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    Obbligo dell’uso della cintura di sicurezza e le sanzioni
    Come stabilito dall’articolo 172 del Codice della strada, il conducente ed i passeggeri di un veicolo hanno l’obbligo di indossare le cinture di sicurezza in qualsiasi situazione di marcia; mentre i bambini di altezza inferiore a 150 cm devono utilizzare un sistema di ritenuta specifico per loro, adeguato al loro peso ed omologato secondo le normative ministeriali e comunitarie.

    Il responsabile della costante efficienza delle cinture di sicurezza e dei sistemi di ritenuta è il conducente del veicolo.

    Il mancato utilizzo della cintura comporta una sanzione amministrativa da 81 a 326 euro (al conducente sprovvisto di cintura sarà applicata anche una decurtazione di 5 punti sulla patente, 10 se neopatentato); nel caso di minori la sanzione viene irrogata al conducente oppure, se presente, al genitore o al soggetto tenuto alla sorveglianza del minore.

    Se nell’arco di due anni si ripete l’infrazione, viene comminata anche la sanzione della sospensione della patente da 15 giorni a due mesi.

    Il soggetto che pur indossando la cintura ne altera od ostacola il suo normale funzionamento è punito con una sanzione pecuniaria da 40 a 163 euro.

    Ricordiamo che l’obbligo della cintura si applica anche ai passeggeri seduti sui sedili posteriori di un veicolo e soprattutto che il suo utilizzo può ridurre del 50% la probabilità di morire in caso di incidente.

    https://www.assicurazioni-alessandria.it/r...-senza-cintura/
  7. .
    CASSAZIONE PENALE - Sezione IV - sentenza n. 1489 del 14 gennaio 2010

    ATTIVITÀ IN PRONTO SOCCORSO: LA SPECIALIZZAZIONE NON GIUSTIFICA GLI ERRORI DIAGNOSTICI

    Il medico di Pronto Soccorso nell’intento di giustificare il proprio operato affermava che pur essendo
    specialista in pneumologia ("e quindi di una branca per nulla affine a quelle che interessavano la persona offesa ..."), aveva visitato la paziente una prima volta, "in assenza di segni oggettivi", e una seconda
    volta; aveva fatto eseguire una TAC, con esito negativo, ed aveva fatto trasferire la paziente al più vicino
    ed attrezzato nosocomio.
    Hanno sostenuto i giudici che, se sin dall'inizio i segni sintomatici erano del tutto inequivocamente indicativi della reale patologia dalla quale era stata attinta la paziente, nulla di comprensibile e giustificabile poteva aver legittimato il medico di P.S. a formulare una diagnosi di "nevrosi d'ansia" (la prima volta)
    e di "psicosi acuta" (la seconda volta), tanto sostanziando la colpa addebitatagli. Né vale addurre a contrario, la prospettazione del sanitario di essere specialista in pneumologia: tale specializzazione non lo
    abilitava di certo a svolgere il suo lavoro di pronto soccorso esclusivamente nei confronti di pazienti con
    patologie riconducibili solo a tale area specialistica; egli assumeva, nei confronti di tutti i pazienti sottoposti alle sue cure, una piena posizione di garanzia, versando in colpa (quanto meno colpa per assunzione) nell'omettere di svolgere appieno i suoi compiti e nel diagnosticare (in un primo tempo) una ingiustificata diagnosi di "nevrosi d'ansia", con la conseguente prescrizione di un farmaco ad hoc e nel confermare (in secondo tempo) la patologia psichica con diagnosi di "psicosi acuta".
    La corretta diagnosi, nel caso specifico, veniva considerata comune appannaggio di ogni esercente l'attività medica, secondo le più comuni e generalizzate leges artis.

    Link sentenza completa: www.anaao.it/userfiles/1489_10.pdf
  8. .
    Ordinanza n. 3901 del 11/2/2019

    Pubblico impiego – personale infermieristico – riconoscimento del tempo di vestizione – principio di diritto

    Segnalazione da U.O. Monitoraggio contratti e legale

    Accogliendo il ricorso presentato da quattro infermieri contro l’azienda sanitaria datrice di lavoro, la Corte ribadisce il seguente principio di diritto: “In materia di orario di lavoro nell’ambito dell’attività infermieristica (nella specie il ccnl comparto sanità pubblica del 7 aprile 1999), il tempo di vestizione – svestizione dà diritto alla retribuzione al di là del rapporto sinallagmatico, trattandosi di obbligo imposto dalle superiori esigenze di sicurezza ed igiene, riguardanti la gestione del servizio pubblico sia la stessa incolumità del personale addetto”.

    Vai al documento
  9. .
    Sentenza n. 448 del 10/1/2019 Pubblico impiego – falsa attestazione di presenza in servizio - procedimento disciplinare - licenziamento


    Allegati: Scarica questo file (CORTE CASS. Sent. 448 - 2019.pdf)CORTE CASS. Sent. 448 - 2019.pdf: https://www.aranagenzia.it/attachments/art...%20-%202019.pdf

    Segnalazione da U.O. Monitoraggio contratti e legale

    Nella presente sentenza, con la quale respinge il ricorso di un lavoratore che era stato licenziato per aver falsamente attestato la presenza in servizio propria e di altri dipendenti, la Corte chiarisce nuovamente alcuni dei passaggi fondamentali del procedimento disciplinare.

    Innanzi tutto chiarisce che per quanto riguarda l’Ufficio per i procedimenti disciplinari: “l'art. 55-bis, comma 4, del d.lgs. n. 165 del 2001, non postula l'istituzione ex novo dell'ufficio competente, né una sua individuazione espressa, essendo sufficiente, ai fini della legittimità della sanzione, che all'organo che l'ha irrogata sia stato attribuito in modo chiaro il relativo potere, di modo che sia stata assicurata quella posizione di terzietà che il legislatore, attraverso la previsione di un apposito ufficio, ha voluto assicurare (Cass. n. 22487 del 2016).”

    Riguardo poi alla contestazione dell’addebito: ” Secondo la giurisprudenza di questa Corte, in tema di sanzioni disciplinari a carico dei lavoratori subordinati, la contestazione dell'addebito ha lo scopo di consentire al lavoratore incolpato l'immediata difesa e deve, conseguentemente, rivestire il carattere della specificità, pur senza l'osservanza di schemi prestabiliti e rigidi, purché si rendano chiari al lavoratore, il fatto o i fatti addebitati nella loro materialità.

    Ne consegue la piena ammissibilità della contestazione per relationem, mediante il richiamo agli atti del procedimento penale instaurato a carico del lavoratore, per fatti e comportamenti rilevanti anche ai fini disciplinari, ove le accuse formulate in sede penale siano a conoscenza dell'interessato, risultando rispettati, anche in tale ipotesi, i principi di correttezza e garanzia del contraddittorio (Cass. n. 10662 del 2014, n. 29240 del 2017).”

    Quindi, dicono gli Ermellini, sul punto non esiste alcuna disposizione che imponga alla P.A. di procedere ad una autonoma istruttoria ai fini della contestazione disciplinare, infatti, secondo la giurisprudenza di legittimità, le risultanze delle indagini preliminari svolte in sede penale, possono, anche da sole, essere poste a fondamento dell’iniziativa disciplinare.

    https://www.aranagenzia.it/sezione-giuridi...enziamento.html
  10. .
    Sentenza riguardante Indennità terapia intensiva Art. 44 comma 6 non concessa ad Infermiere altro reparto

    1. la Corte d'appello di Roma, in riforma della sentenza del Tribunale della stessa sede, rigettava la domanda con la quale xxxxx xxxxx, infermiera presso il servizio psichiatrico di diagnosi e cura del Presidio ospedaliero xxxxxx, aveva chiesto la condanna dell'azienda Usl di appartenenza ad erogarle l' indennità per il personale addetto ai servizi di terapia intensiva e subintensiva, prevista dall'art. 44 comma 6 del C.C.N.L. del 1995, sul presupposto di essersi occupata di prestare attività di assistenza intensiva e sub-intensiva presso il proprio reparto.

    La Corte capitolina argomentava che la ricorrente non era addetta in via ordinaria ad un reparto di terapia intensiva e sub-intensiva, sicché la presenza di malati bisognosi di tali terapie era solo un'eventualità; inoltre, la stessa lavoratrice aveva ammesso l'inesistenza nel proprio presidio di un reparto di terapia intensiva e sub-intensiva distinto da quello di appartenenza, dove i malati potessero essere trasferiti.

    2. Per la cassazione della sentenza xxxxx xxxxx propone ricorso, con il quale deduce come primo motivo la violazione e falsa applicazione di norme di diritto e dei contratti e accordi collettivi nazionali di lavoro; come secondo motivo, la falsa applicazione dell'articolo 44 comma sesto lettera C del C.C.N.L. del comparto sanità;

    come terzo motivo, l' omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio è stato oggetto di discussione tra le parti. Sostiene che l'indennità in questione spetterebbe al personale infermieristico che, a prescindere dal reparto cui è assegnato, svolga effettiva attività di terapia intensiva e/o sub intensiva; che ciò era quanto avveniva nel suo reparto, ove sono ricoverati soggetti prevalentemente affetti da schizofrenia e pertanto abbisognevoli di sorveglianza e assistenza continui.

    3. L'Azienda USL di xxxxx è rimasta intimata. -2- Ric. 2015 n. 14387 sez. ML - ud. 05-07-2017

    4. Il Collegio ha autorizzato la redazione della motivazione in forma semplificata.

    Considerato che:

    1. il ricorso è manifestamente infondato. La soluzione adottata dalla Corte territoriale è coerente con l'orientamento di questa Corte, secondo il quale la volontà delle parti collettive nella previsione dell'emolumento in questione è quella di collegarlo allo svolgimento del lavoro nelle terapie intensive, sub-intensive e nelle sale operatorie, e non al più generico rischio che si estende agli infermieri di altri reparti chiamati a svolgere attività di terapia intensiva o subintensiva (v. Cass. 14/01/2015 n. 460, Cass. 18/11/2015 n. 23602, Cass. 20/11/2015 n. 23792).

    In particolare, si è rilevato nei richiamati arresti che il senso letterale dell'art. 44, comma 6, del CCNL comparto sanità 1995/1998, è sufficientemente chiaro e la lettura complessiva dell'atto, nonché il comportamento successivo delle parti, depongono in tal senso, escludendo ogni possibile dubbio interpretativo.

    Il senso letterale dell' espressione lavoro prestato "nei servizi di malattie infettive" indica, infatti, un lavoro prestato in una struttura preposta alla cura delle malattie infettive (o di malattie affini o equipollenti). "Servizio" è un termine generale idoneo a ricomprendere articolazioni del servizio sanitario denominabili in modo diverso (divisione, reparto, dipartimento, ecc.) ma comunque sempre identificabili come parti dell' organizzazione sanitaria destinate alla cura di un certo tipo di malattie.

    Si è poi argomentato che se la norma viene letta nel suo insieme, ci si rende conto che tutte le situazioni per le quali viene prevista l'indennità (lett. a, b, c) fanno riferimento ad articolazioni del servizio sanitario e non al tipo di patologia con il quale l'infermiere può venire in contatto quale che sia la struttura in cui opera.

    Un'ulteriore conferma, dell'interpretazione sistematica, si è tratta dalla lettura dell'art. 44, comma 9. Tale previsione abilita la contrattazione decentrata, entro ben definiti limiti di spesa, ad individuare altri operatori del ruolo sanitario ai quali corrispondere l'indennità, specificando che deve trattarsi di operatori che abbiano lavorato "nei servizi indicati nel comma 6".

    Questo rinvio rafforza l'idea che il concetto di "servizi" utilizzato nel comma 6, è concetto unitario ed omogeneo che vale ad indicare strutture dell'organizzazione sanitaria, quali i reparti di terapia intensiva, i servizi di nefrologia, i servizi di malattie infettive, ecc...

    Il rinvio alla contrattazione decentrata, in una delimitata cornice di spesa, dell'individuazione di altri operatori del ruolo sanitario ai quali corrispondere la predetta indennità, specificando la tipologia di operatori ("nei servizi indicati nel comma 6") conferma ulteriormente che solo i contraenti collettivi, in sede decentrata, possono, conformando la volontà negoziale a limiti di spesa, ampliare gli aventi diritto all'indennità di rischio e disagio in esame.

    Si è infine aggiunto che anche i comportamenti precedenti delle parti sono in linea con questa ricostruzione, in quanto l'art. 49 del contratto collettivo recepito nel D.P.R. n. 384 del 1990, antecedente storico della previsione in esame, riconosceva l'indennità al personale infermieristico operante "nelle terapie intensive, sub-intensive, nelle sale operatorie e nei servizi di nefrologia e dialisi".

    3. Dovendosi dare continuità a tale soluzione, il Collegio, condividendo la proposta del relatore, ritiene che il ricorso risulti manifestamente infondato ai sensi dell'art. 375, comma 1 n. 5 c.p.c., e debba in tal senso essere deciso con ordinanza in camera di consiglio.

    4. Non vi è luogo a pronuncia sulle spese, in assenza di attività difensiva della parte intimata.

    5. Sussistono i presupposti per il raddoppio del contributo unificato ai sensi dell'art. 13 comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall'art. 1, comma 17 della 1. n. 228 del 2012.

    P.Q.M. Rigetta il ricorso. Nulla per le spese. Ai sensi dell'art. 13, co. 1 quater, del d.lgs. n. 115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte della ricorrente dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13. Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del 5.7.2017

    Corte di Cassazione - copia non ufficiale

    Fonte: www.cortedicassazione.it
  11. .
    Trasporto in ambulanza e consenso prelievi ematici per accertamento tasso alcolemico

    Corte di Appello di Bologna Penale Ord. Sez. 7 Num. 56840 28/11/2018

    Sig. xxxx xxxx ricorre avverso la sentenza di cui in epigrafe che lo ha riconosciuto colpevole del reato di cui all'art. 186, commi 2^ lett. c), comma 2 bis e 2 sexies e C.d.S. per avere il medesimo circolato, in ora notturna, provocando un incidente stradale, in stato di ebbrezza alcolica accertata tramite prelievo ematico, da cui risultava un valore di gr/l. 2,00.

    Formula un'unica censura, con cui si duole della violazione di legge e del vizio di motivazione in relazione alle modalità di accertamento del tasso alcolemico nel sangue, intervenuto presso il nosocomio ove l'imputato era stato trasportato da una ambulanza del 118, essendo il medesimo stato effettuato, senza previo avviso al difensore della facoltà di farsi assistere e senza consenso del medesimo e ciò non nell'ambito di un protocollo sanitario, ma su richiesta delle forze dell'ordine intervenute sul luogo del sinistro.

    Osserva che l'avviso di cui all'art. 144 disp. att. cod. proc. pen. sarebbe stato dato al xxxx xxxx solo in data 21 maggio 2013, pur essendo il prelievo stato effettuato il 12 maggio 2013, nonostante la disposizione ne preveda l'obbligatorietà prima della sottoposizione agli accertamenti. Ricorda che il xxxx xxxx non ebbe alcuna comunicazione in relazione alla finalità degli accertamenti richiesti, non essendo, in questo modo, posto nella medesima situazione di coloro che vengono sottoposti agli accertamenti quali utenti della strada. Rileva che, contrariamente a quanto affermato, l'eccezione di nullità relativa al mancato avviso della facoltà di farsi assistere da un difensore deve ritenersi tempestiva se sollevata in sede di opposizione al decreto penale di condanna. Il ricorso è manifestamente infondato.

    La Corte afferma che l'esame per l'accertamento ematochimico della presenza di alcool nel sangue fu effettuato nell'ambito dell'ordinario protocollo medico, essendo il xxxx xxxx presso il nosocomio a bordo di ambulanza del 118, con la conseguenza della non necessità del previo avviso della facoltà di farsi assistere da un difensore.

    Rispetto a detta ricostruzione il ricorrente che oppone la sottoposizione all'esame su richiesta degli operanti, non indica quale atto contraddica l'accertamento della Corte e del primo giudice sulla provenienza della richiesta.

    Che il previo avviso non sia necessario nell'ambito della verifica prevista da un protocollo medico è stato definitivamente chiarito da Cass. Sez. 4, n. 6514 del 18/01/2018 - (dep. 09/02/2018, Tognini, Rv. 27222501).

    Correttamente, dunque, i giudici di merito hanno ritenuto ininfluente la decisione sulla tempestività dell'eccezione di nullità relativa all'omesso avviso della facoltà di farsi assistere, trattandosi di un'ipotesi sottratta alla disciplina richiamata dal ricorrente.

    All'inammissibilità del ricorso, riconducibile a colpa del ricorrente (Corte Cost.sent.n.186/2000) consegue la condanna del medesimo al pagamento delle spese processuali e di una somma che congruamente si determina in euro tremila, in favore della cassa delle ammende.
    P.Q.M.
    Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e al versamento della somma di euro tremila alla cassa delle
    ammende.

    Così deciso in Roma il 28 novembre 2018

    Fonte: Corte di Cassazione - copia non ufficiale

    Edited by coeslazio - 10/2/2019, 10:02
  12. .
    Sirena e lampeggianti aumentano il rischio di incidenti con l’ambulanza? (parte 2)


    Nella precedente analisi dei dati (nota del 17 gennaio 2019 reperibile qui https://www.facebook.com/notes/coes-lazio/...09621025733509/) si era rilevato che le ambulanze e i veicoli antincendio non avevano più probabilità di “schiantarsi” in modalità di emergenza rispetto alla modalità normale ed è vero... ma da un successivo approfondimento di ulteriori dati messi a disposizione dal Sistema di informazione nazionale EMS 2016 (NEMSIS – National EMS Information System) si evincono delle differenze, in percentuale negativa, che riportano a gravare un aumento di rischio sui conducenti di veicoli sanitari in alcune condizioni e di emergenza con luci e sirene attivate, ma ora... entriamo nel nocciolo della questione.

    APPROFONDIMENTO:

    L'uso di luci e sirene associate a un aumento del rischio di incidenti con l'ambulanza? Un'analisi contemporanea utilizzando i dati del sistema informativo nazionale

    OBIETTIVO DI STUDIO:

    Confrontiamo i tassi di incidente segnalati per le ambulanze statunitensi che rispondono o trasportano pazienti da una situazione di emergenza 911 con o senza luci e sirene. La nostra ipotesi è che non ci sarà differenza nel tasso di incidenti in ambulanza, se si usano luci e sirene ma solo nella “fase di risposta”.

    METODI:

    Per questo studio retrospettivo, abbiamo utilizzato il set di dati del Sistema di informazione nazionale EMS 2016 per identificare le risposte alla scena 911 e il successivo trasporto dei pazienti da parte di unità di pronto soccorso (EMS) di pronto soccorso. Abbiamo utilizzato i campi "modalità di risposta alla scena" e "modalità di trasporto dalla scena" del sistema per determinare l'uso di luci e sirene. Abbiamo utilizzato i campi "tipo di ritardo di risposta" e "tipo di ritardo di trasporto" per identificare le risposte e i trasporti che sono stati ritardati a causa di un incidente che coinvolge l'ambulanza. Abbiamo calcolato il tasso di ritardi correlati al crash per 100.000 risposte o trasporti e utilizzato la regressione logistica multivariata con errori standard clusterizzati (per agenzia) per calcolare gli odds ratio (AOR) rettificati (con intervalli di confidenza del 95% [CIs]) per l'associazione tra crash ritardi correlati e luci e sirene utilizzano per le risposte e i trasporti separatamente.

    RISULTATI:

    Tra i 19 milioni inclusi 911 scene di risposta, il tasso di crash della fase di
    risposta (in invio mezzo) è stato di 4,6 su 100.000 senza luci e sirene e 5,4 su 100.000 con luci e sirene (AOR 1,5; IC 95% da 1,2 a 1,9). Per la fase di trasporto (destinazione ospedale), il tasso di crash era di 7.0 su 100.000 senza luci e sirene e 17,1 di 100.000 con luci e sirene (AOR 2.9; IC 95% da 2.2 a 3.9). L'esclusione di risposte e trasporti con utilizzo solo di luci parziali e sirene non ha alterato significativamente i risultati (risposta AOR 1.5, IC 95% da 1.2 a 1.9, trasporto AOR 2.8, IC 95% da 2.1 a 3.8).

    CONCLUSIONE:

    L'uso dell'ambulanza di lampeggianti e sirene è associato ad un aumentato rischio di incidenti in ambulanza non tanto nell’invio del mezzo di soccorso (fase di risposta) ma nel successivo trasporto in ospedale. L'aumento del “rischio” è massima durante la fase di trasporto. Enti e associazioni erogatori di servizi di emergenza dovrebbero valutare questi rischi rispetto all’eccessivo utilizzo dell'uso di lampeggianti e sirene.




    Fonte: www.ncbi.nlm.nih.gov
    www.coeslazio.it
    CoES Lazio Facebook, Twitter, Youtube


    https://www.facebook.com/notes/coes-lazio/...16408908388054/
  13. .
    Professioni sanitarie, la Consulta boccia il clown in corsia della Puglia

    La Regione Puglia non può istituire la figura professionale di «clown di corsia» (Corte costituzionale, sentenza 6 dicembre 2018, n. 228) Con questa pronuncia, la Consulta ha dichiarato incostituzionale la legge della Regione Puglia 20 dicembre 2017, n. 60 “Disposizioni in materia di clownterapia” per violazione dell’art. 117, comma 3, della Costituzione perché è compito dello Stato individuare le figure professionali, con i relativi profili titoli abilitanti.

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    SENTENZA N. 228 ANNO 2018

    REPUBBLICA ITALIANA

    IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

    LA CORTE COSTITUZIONALE

    composta dai signori: Presidente: Giorgio LATTANZI; Giudici : Aldo CAROSI, Marta CARTABIA, Mario Rosario MORELLI, Giancarlo CORAGGIO, Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI,

    ha pronunciato la seguente

    SENTENZA

    nel giudizio di legittimità costituzionale della legge della Regione Puglia 20 dicembre 2017, n. 60 (Disposizioni in materia di clownterapia), e, in particolare, degli artt. 1, 2, 3 e 5, promosso dal Presidente del Consiglio dei ministri, con ricorso notificato il 16-21 febbraio 2018, depositato in cancelleria il 21 febbraio 2018, iscritto al n. 15 del registro ricorsi 2018 e pubblicato nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 13, prima serie speciale, dell’anno 2018.

    Udito nella udienza pubblica del 6 novembre 2018 il Giudice relatore Giulio Prosperetti;

    udito l’avvocato dello Stato Gabriella Palmieri per il Presidente del Consiglio dei ministri.

    Ritenuto in fatto

    1.– Con ricorso notificato il 16-21 febbraio 2018 e depositato il 21 febbraio 2018 (reg. ric. n. 15 del 2018), il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, ha impugnato la legge della Regione Puglia 20 dicembre 2017, n. 60 (Disposizioni in materia di clownterapia) e, in particolare, gli artt. l, 2, 3 e 5, denunciandone il contrasto con l’art. 117, terzo comma, della Costituzione.

    1.1.– Secondo il ricorrente, la Regione Puglia, con la predetta legge n. 60 del 2017, che promuove l’utilizzo della clownterapia, «quale trattamento a supporto e integrazione delle cure cliniche-terapeutiche, con particolare riferimento alle strutture sanitarie, nonché a supporto degli interventi nelle strutture sociosanitarie e socio-assistenziali» (art. l, comma 1), avrebbe ecceduto la propria competenza nella misura in cui istituisce una nuova figura professionale, quale quella del “clown di corsia”, non prevista dalla legislazione statale in materia, con conseguente lesione della competenza statale in materia di «professioni», in violazione dell’art. 117, terzo comma, Cost.

    1.2.– Le disposizioni impugnate sono, in particolare, gli artt. 1, 2, 3 e 5.

    L’art. l, comma 2, lettera a), definisce il termine «clownterapia», o terapia del sorriso, come «la possibilità di utilizzare, attraverso l’opera di personale medico, non medico, professionale e di volontari appositamente formati, il sorriso e il pensiero positivo a favore di chi soffre un disagio fisico, psichico o sociale. La clownterapia può svolgersi in contesti ospedalieri, non solo pediatrici, in centri per la disabilità, in centri per la terza età, in contesti sociali difficili, carceri, quartieri a rischio, nelle scuole, in missioni umanitarie e in occasione di eventi calamitosi».

    L’art. 1, comma 2, lettera b), definisce «clown di corsia» quella «figura che, utilizzando specifiche competenze acquisite in varie discipline, analizza i bisogni dell’utente per migliorarne le condizioni fisiche e mentali, all’interno delle strutture sanitarie, socio-sanitarie e socio-assistenziali, applicando i principi e le tecniche della clownterapia».

    L’art. 2, al comma l, stabilisce che «[p]er il conseguimento delle finalità di cui all’articolo l, la Regione Puglia promuove la formazione professionale del personale delle strutture sanitarie, socio-sanitarie e delle associazioni di volontariato e di promozione sociale e delle cooperative che operano nell’ambito della clownterapia». I successivi commi 2 e 3 prevedono, rispettivamente, che «[l]a qualifica professionale del clown di corsia è riconosciuta al termine di un percorso formativo che deve svolgersi nel rispetto degli standard formativi specifici, individuati dal regolamento di cui all’articolo 3», e che «[i] corsi di formazione sono organizzati dalle associazioni di cui al comma l, iscritte nel registro regionale delle associazioni di volontariato di cui alla legge regionale 16 marzo 1994, n. 11 (Norme di attuazione della legge quadro sul volontariato), secondo le modalità e i criteri stabiliti dal regolamento di cui all’articolo 3».

    L’art. 3 prevede, quindi, che «[e]ntro sessanta giorni dalla data di entrata in vigore della presente legge, la Giunta regionale, con apposito regolamento da adottarsi ai sensi dell’articolo 44, comma 2, dello Statuto regionale definisce i criteri e le modalità di svolgimento dei corsi previsti dalla presente legge», tra cui le materie oggetto del percorso formativo, la durata e il numero complessivo delle ore dei corsi, suddivise in ore di studio e ore di tirocinio, i requisiti per l’accesso ai corsi, i requisiti professionali dei membri della commissione incaricata di effettuare la valutazione della prova finale, le modalità per il riconoscimento dei crediti formativi e lavorativi per coloro che già svolgono l’attività di clownterapia presso strutture o enti alla data di entrata in vigore della legge stessa.

    Infine, l’art. 5 istituisce un apposito registro regionale per i soggetti che, ai sensi della legge stessa, svolgono attività di clownterapia.

    1.3.– A sostegno della censura avanzata nei confronti della legge regionale in oggetto, l’Avvocatura generale dello Stato richiama il principio affermato dalla consolidata giurisprudenza costituzionale secondo cui spetta allo Stato l’individuazione delle figure professionali, con i relativi profili e titoli abilitanti, per il carattere necessariamente unitario a livello statale che riveste tale individuazione; principio che, nel costituire limite di ordine generale invalicabile dal legislatore regionale, comporta per esso l’impossibilità di dar vita a nuove figure professionali.

    Argomenta, in proposito, il ricorrente che tale riparto delle competenze in materia di «professioni» fra Stato e Regioni trova riscontro nella normativa statale di cui al decreto legislativo 2 febbraio 2006, n. 30 (Ricognizione dei princìpi fondamentali in materia di professioni, ai sensi dell’articolo l della legge 5 giugno 2003, n. 131).

    Difatti, l’art. 1, nell’individuare al comma 1 i principi fondamentali in materia di «professioni» di cui all’art. 117, terzo comma, Cost., che si desumono dalle leggi vigenti ai sensi dell’art. l, comma 4, della legge 5 giugno 2003, n. 131 (Disposizioni per l’adeguamento dell’ordinamento della Repubblica alla legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3), e successive modificazioni, dispone che «[l]e regioni esercitano la potestà legislativa in materia di professioni nel rispetto dei princìpi fondamentali di cui al Capo II» (comma 2) e che «[l]a potestà legislativa regionale si esercita sulle professioni individuate e definite dalla normativa statale» (comma 3).

    1.4.– Con riferimento allo specifico settore delle professioni in ambito sanitario, il ricorrente rappresenta, altresì, che lo stesso legislatore statale ha preso in considerazione il fatto che nuovi eventuali fabbisogni possono condurre all’istituzione di profili professionali diversi da quelli contemplati dalla normativa nazionale.

    L’art. 5 della legge 1° febbraio 2006, n. 43 (Disposizioni in materia di professioni sanitarie infermieristiche, ostetrica, riabilitative, tecnicosanitarie e della prevenzione e delega al Governo per l’istituzione dei relativi ordini professionali), ha difatti delineato una specifica procedura per l’individuazione, con il coinvolgimento delle Regioni, di nuove professioni sanitarie da ricomprendere in una delle aree di cui agli artt. l, 2, 3 e 4 della legge 10 agosto 2000, n. 251 (Disciplina delle professioni sanitarie infermieristiche, tecniche della riabilitazione, della prevenzione nonché della professione ostetrica).

    Evidenzia il ricorrente che la predetta procedura è stata recentemente modificata dall’art. 6 della legge 11 gennaio 2018, n. 3 (Delega al Governo in materia di sperimentazione clinica di medicinali nonché disposizioni per il riordino delle professioni sanitarie e per la dirigenza sanitaria del Ministero della salute). Tale articolo, che ha sostituito, a decorrere dal 15 febbraio 2018, il citato art. 5 della legge n. 43 del 2006, ha previsto che «[l]’istituzione di nuove professioni sanitarie è effettuata, nel rispetto dei princìpi fondamentali stabiliti dalla presente legge, previo parere tecnico-scientifico del Consiglio superiore di sanità, mediante uno o più accordi, sanciti in sede di Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le Province autonome di Trento e di Bolzano, ai sensi dell’articolo 4 del decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281, e recepiti con decreti del Presidente della Repubblica, previa deliberazione del Consiglio dei ministri».

    Conclude il ricorrente affermando che «[a] seguito di tale intervento legislativo emerge chiaramente che l’esigenza di garantire un percorso formativo comune per tutti coloro che operano nel campo della “clownterapia” potrà essere eventualmente soddisfatta osservando la procedura sopra illustrata e soltanto con tale modalità; medio tempore, per quanto sinora osservato, alla Regione Puglia non è consentito, con propria legge, istituire la figura professionale del “clown di corsia”, pena la violazione dell’art. 117, comma 3, della Costituzione».

    2.– La Regione Puglia non si è costituita in giudizio.

    Considerato in diritto

    1.– Con il ricorso in epigrafe, il Presidente del Consiglio dei ministri ha promosso questioni di legittimità costituzionale della legge della Regione Puglia 20 dicembre 2017, n. 60 (Disposizioni in materia di clownterapia), e, in particolare, degli artt. 1, 2, 3 e 5, in riferimento all’art. 117, terzo comma, della Costituzione.

    1.1.– L’art. l, comma 1, della legge regionale impugnata stabilisce che essa promuove la conoscenza, lo studio e l’utilizzo della clownterapia quale trattamento a supporto ed integrazione delle cure cliniche-terapeutiche, con particolare riferimento alle strutture sanitarie, nonché a supporto degli interventi nelle strutture socio-sanitarie e socio-assistenziali. Il comma 2, lettera a), definisce il termine «clownterapia», o terapia del sorriso, come «la possibilità di utilizzare, attraverso l’opera di personale medico, non medico, professionale e di volontari appositamente formati, il sorriso e il pensiero positivo a favore di chi soffre un disagio fisico, psichico o sociale. La clownterapia può svolgersi in contesti ospedalieri, non solo pediatrici, in centri per la disabilità, in centri per la terza età, in contesti sociali difficili, carceri, quartieri a rischio, nelle scuole, in missioni umanitarie e in occasione di eventi calamitosi». La lettera b) definisce, poi, con il termine «clown di corsia», quella «figura che, utilizzando specifiche competenze acquisite in varie discipline, analizza i bisogni dell’utente per migliorarne le condizioni fisiche e mentali, all’interno delle strutture sanitarie, socio-sanitarie e socio-assistenziali, applicando i principi e le tecniche della clownterapia».

    L’art. 2, al comma l, prevede che «[p]er il conseguimento delle finalità di cui all’articolo l, la Regione Puglia promuove la formazione professionale del personale delle strutture sanitarie, socio-sanitarie e delle associazioni di volontariato e di promozione sociale e delle cooperative che operano nell’ambito della clownterapia». Il comma 2 stabilisce che «[l]a qualifica professionale del clown di corsia è riconosciuta al termine di un percorso formativo che deve svolgersi nel rispetto degli standard formativi specifici, individuati dal regolamento di cui all’articolo 3». Il successivo comma 3 prevede che «[i] corsi di formazione sono organizzati dalle associazioni di cui al comma l, iscritte nel registro regionale delle associazioni di volontariato di cui alla legge regionale 16 marzo 1994, n. 11 (Norme di attuazione della legge quadro sul volontariato), secondo le modalità e i criteri stabiliti dal regolamento di cui all’articolo 3».

    L’art. 3 dispone che, «[e]ntro sessanta giorni dalla data di entrata in vigore della presente legge, la Giunta regionale, con apposito regolamento da adottarsi ai sensi dell’articolo 44, comma 2, dello Statuto regionale, definisce i criteri e le modalità di svolgimento dei corsi previsti dalla presente legge», tra cui le materie oggetto del percorso formativo, la durata e il numero complessivo delle ore dei corsi, suddivise in ore di studio e ore di tirocinio, i requisiti per l’accesso ai corsi, i requisiti professionali dei membri della commissione incaricata di effettuare la valutazione della prova finale, le modalità per il riconoscimento dei crediti formativi e lavorativi per coloro che già svolgono l’attività di clownterapia presso strutture o enti alla data di entrata in vigore della legge stessa.

    L’art. 5, infine, nel prevedere l’istituzione da parte della Regione Puglia di un registro regionale a cui possono iscriversi «i soggetti che ai sensi della presente legge svolgono attività di clownterapia» ovvero enti, fondazioni, onlus e cooperative sociali, le cui finalità statutarie prevedono l’espletamento dell’attività di clownterapia, stabilisce che a tale fine la predetta attività «deve essere svolta da almeno tre anni secondo le disposizioni della presente legge e dei regolamenti adottati». Inoltre, l’articolo in esame dispone che «[l]e strutture sanitarie, socio-sanitarie e socio-assistenziali che vogliono implementare i servizi offerti con la clownterapia, attingono dal registro previsto dal presente articolo».

    1.2.– Secondo il ricorrente, le riferite disposizioni e l’intera legge reg. Puglia n. 68 del 2017, avente contenuto normativo omogeneo, nell’individuare e disciplinare la figura professionale del clown di corsia, della quale definiscono il percorso formativo, e prevedendo, altresì, l’istituzione di un apposito registro regionale per i soggetti che svolgono l’attività di clownterapia, ledono la competenza statale in materia di «professioni», essendo riservata al legislatore nazionale l’individuazione delle figure professionali con i relativi profili e titoli abilitanti.

    2.– Le questioni sono fondate.

    2.1.– La legge reg. Puglia n. 60 del 2017 costituisce il primo intervento normativo in Italia nel campo della clownterapia, definita come terapia del sorriso e costituente una applicazione della gelotologia o scienza del sorriso.

    La normativa censurata si compone di otto articoli.

    Oltre ai citati artt. 1, 2, 3 e 5, oggetto di specifica impugnazione da parte del ricorrente, la legge regionale in esame contempla: l’art. 4 (Progetti di clownterapia), che dispone l’emanazione di un bando di adesione per promuovere progetti di clownterapia presso le strutture sanitarie e socio-sanitarie della Regione; l’art. 6 (Clausola valutativa), che stabilisce l’obbligo annuale per la Giunta regionale di riferire al Consiglio in merito alla realizzazione degli interventi previsti dalla legge; l’art. 7 (Disposizioni finanziarie), che individua la dotazione per finanziare i progetti di clownterapia di cui all’art. 4 e la copertura dei relativi oneri; ed infine l’art. 8, che fissa la data di entrata in vigore della legge.

    2.2.– Rileva questa Corte che, nel complessivo contesto della legge reg. Puglia n. 60 del 2017, gli artt. 1, 2, 3 e 5 rivestono carattere essenziale, costituendo la stessa ragione ispiratrice dell’intervento legislativo.

    Difatti, il legislatore regionale, nel promuovere complessivamente la clownterapia «quale trattamento a supporto e integrazione delle cure cliniche terapeutiche, con particolare riferimento alle strutture sanitarie, nonché a supporto degli interventi nelle strutture socio-sanitarie e socio-assistenziali» (art. 1), attribuisce specifico rilievo alla individuazione della figura professionale del clown di corsia. Quest’ultima è definita quale «figura che, utilizzando specifiche competenze acquisite in varie discipline, analizza i bisogni dell’utente per migliorarne le condizioni fisiche e mentali, all’interno delle strutture sanitarie, socio-sanitarie e socio-assistenziali, applicando i principi e le tecniche della clownterapia» (art. 1, comma 2, lettera b).

    A sua volta, l’art. 2 prevede che la qualifica professionale del clown di corsia è riconosciuta al termine di uno specifico percorso professionale definito dal regolamento previsto dall’art. 3, la cui emanazione è demandata alla Giunta regionale ed avente il contenuto sopra ricordato al punto 1.1.

    Infine, con l’istituzione del registro previsto dall’art. 5, il legislatore regionale mira a subordinare l’esercizio delle attività di clownterapia nel territorio regionale al rispetto dei requisiti e delle condizioni fissati dalla legge medesima.

    3.– Questa Corte ha ripetutamente affermato che «la potestà legislativa regionale nella materia concorrente delle “professioni” deve rispettare il principio secondo cui l’individuazione delle figure professionali, con i relativi profili e titoli abilitanti, è riservata, per il suo carattere necessariamente unitario, allo Stato, rientrando nella competenza delle Regioni la disciplina di quegli aspetti che presentano uno specifico collegamento con la realtà regionale; tale principio, al di là della particolare attuazione ad opera dei singoli precetti normativi, si configura infatti quale limite di ordine generale, invalicabile dalla legge regionale, da ciò derivando che non è nei poteri delle Regioni dar vita a nuove figure professionali » (sentenza n. 147 del 2018, con richiamo alla sentenza n. 98 del 2013).

    Con numerose decisioni è stato poi precisato che «tra gli indici sintomatici della istituzione di una nuova professione» vi è «quello della previsione di appositi elenchi, disciplinati dalla Regione, connessi allo svolgimento della attività che la legge regolamenta, giacché “l’istituzione di un registro professionale e la previsione delle condizioni per la iscrizione in esso hanno, già di per sé, una funzione individuatrice della professione, preclusa alla competenza regionale” (sentenze n. 93 del 2008, n. 300 e 57 del 2007 e n. 355 del 2005), prescindendosi dalla circostanza che tale iscrizione si caratterizzi o meno per essere necessaria ai fini dello svolgimento della attività cui l’elenco fa riferimento (sentenza n. 300 del 2007)» (sentenza n. 98 del 2013; nello stesso senso, sentenza n. 217 del 2015).

    3.1.– Questa Corte ha, altresì, delineato gli ambiti propri delle materie «professioni» e «formazione professionale», la prima di competenza concorrente, la seconda ascrivibile alla competenza legislativa residuale delle Regioni (ex plurimis, sentenze n. 108 del 2012, n. 77 del 2011, n. 132 del 2010, n. 139 del 2009, n. 93 del 2008, n. 459 e n. 319 del 2005, n. 353 del 2003).

    In particolare, ha precisato che «il nucleo della potestà statale “si colloca nella fase genetica di individuazione normativa della professione: all’esito di essa una particolare attività lavorativa assume un tratto che la distingue da ogni altra e la rende oggetto di una posizione qualificata nell’ambito dell’ordinamento giuridico, di cui si rende espressione, con funzione costitutiva, l’albo” (sentenza n. 230 del 2011). Ove, pertanto, la legge definisca i tratti costitutivi peculiari di una particolare attività professionale e le modalità di accesso ad essa, in difetto delle quali ne è precluso l’esercizio, l’intervento legislativo non si colloca nell’ambito materiale della formazione professionale, ma, semmai, lo precede (sentenze n. 300 del 2007 e n. 449 del 2006). Una volta, invece, che la legge statale abbia dato vita ad un’autonoma figura professionale “non si spiega per quale motivo le Regioni, dotate di potestà primaria in materia di formazione professionale, non possano regolare corsi di formazione relativi alle professioni (…) già istituite dallo Stato” (sentenza n. 271 del 2009)» (sentenza n. 108 del 2012).

    4.– Alla luce di tale costante giurisprudenza, non può dubitarsi che la legge impugnata individui e definisca la professione in esame (il clown di corsia), sicché la relativa attività lavorativa assume le connotazioni distintive peculiari che la configurano come posizione qualificata nell’ambito dell’ordinamento giuridico (ex plurimis, la già richiamata sentenza n. 108 del 2012).

    Ne consegue che l’intervento legislativo censurato non può ritenersi espressione della competenza regionale in materia di «formazione professionale», in quanto questa si riferisce alle figure professionali definite dal legislatore statale, delle quali la Regione, nell’esercizio della predetta competenza, può regolare i corsi di formazione.

    4.1.– Per tali ragioni, la legge reg. Puglia n. 60 del 2017 lede i principi fondamentali in materia di «professioni», ai sensi dell’art. 117, terzo comma, Cost., come declinati dall’art. 1 del decreto legislativo 2 febbraio 2006, n. 30 (Ricognizione dei principi fondamentali in materia di professioni, ai sensi dell’articolo l della legge 5 giugno 2003, n. 131).

    4.2.– Del resto, la comprensibile esigenza di assicurare che i soggetti che svolgono in via volontaria attività di clownterapia e, nello specifico, di clown di corsia, abbiano competenze adeguate ai delicati ambiti socio-sanitari in cui essa si espleta, può essere soddisfatta attraverso la previsione di appositi corsi di formazione condizionanti l’accesso ai peculiari contesti di operatività.

    4.3.– Qualora invece si ritenga necessaria l’istituzione di una specifica professione in riferimento all’attività del clown di corsia, riconducibile all’ambito sanitario, la normativa statale già prevede un particolare procedimento, che contempla il coinvolgimento delle stesse Regioni, per individuare e istituire nuove figure professionali.

    L’art. 5, comma 2, della legge 1° febbraio 2006, n. 43 (Disposizioni in materia di professioni sanitarie infermieristiche, ostetrica, riabilitative, tecnico-sanitarie e della prevenzione e delega al Governo per l’istituzione dei relativi ordini professionali), come sostituito dall’art. 6, comma 1, della legge 11 gennaio 2018, n. 3 (Delega al Governo in materia di sperimentazione clinica di medicinali nonché disposizioni per il riordino delle professioni sanitarie e per la dirigenza sanitaria del Ministero della salute), prevede, difatti, che «[l’]istituzione di nuove professioni sanitarie è effettuata, nel rispetto dei princìpi fondamentali stabiliti dalla presente legge, previo parere tecnico-scientifico del Consiglio superiore di sanità, mediante uno o più accordi, sanciti in sede di Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le Province autonome di Trento e di Bolzano, ai sensi dell’articolo 4 del decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281, e recepiti con decreti del Presidente della Repubblica, previa deliberazione del Consiglio dei ministri».

    4.4.– Gli artt. 1, 2, 3 e 5 della legge reg. Puglia n. 60 del 2017, impugnati «in particolare» dal ricorrente, nel riguardare, per quanto già evidenziato, il nucleo centrale ed essenziale dell’intervento legislativo regionale, sicché la riscontrata illegittimità costituzionale di essi coinvolge l’intera legge, comportandone, perciò, la integrale caducazione, ai sensi della giurisprudenza di questa Corte (ex plurimis, sentenze n. 81 del 2018, n. 14 del 2017 e n. 201 del 2008). Difatti, gli artt. 4, 6, 7 e 8 non assumono autonoma rilevanza e significatività, svolgendo funzioni meramente accessorie o, comunque, complementari alla normativa principale contenuta negli artt. 1, 2, 3 e 5.

    per questi motivi

    LA CORTE COSTITUZIONALE

    dichiara l’illegittimità costituzionale della legge della Regione Puglia 20 dicembre 2017, n. 60 (Disposizioni in materia di clownterapia).

    Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 6 novembre 2018.

    F.to:

    Giorgio LATTANZI, Presidente

    Giulio PROSPERETTI, Redattore

    Roberto MILANA, Cancelliere

    Depositata in Cancelleria il 6 dicembre 2018.

    Il Direttore della Cancelleria

    F.to: Roberto MILANA

    Fonte: https://www.cortecostituzionale.it/actionS...018&numero=228#
  14. .
    Penale Sent. Sez. 6 Num. 40799 Anno 2018

    Operatore di Centrale ed omissione di atti di ufficio

    Data Udienza: 16/05/2018


    RITENUTO IN FATTO

    1. Bxxxxxx ricorre per mezzo del suo difensore di fiducia avverso la sentenza in epigrafe, con la quale la Corte di appello di Mxxxxxx ha confermato quella di primo grado che l'aveva ritenuta responsabile del delitto di cui all'art. 328 cod. pen. a lei contestato perché, nella qualità di incaricato di pubblico servizio in quanto operatore della Centrale operativa del 118 di Mxxxxx,indebitamente rifiutava un atto del suo ufficio che per ragioni di sanità doveva essere compiuto senza ritardo.

    In particolare, la ricorrente è imputata di avere violato, nel corso di tre conversazioni telefoniche intercorse nel giro di pochi minuti, le regole di condotta previste nelle Linee Guida - protocolli e procedure di servizio S.U.E.S. 118 XXXXXX, non raccogliendo i dati necessari e sufficienti stabiliti dal protocollo operativo e non procedendo alla cosiddetta "intervista", i cui contenuti sono elencati nelle suddette linee-guida e la cui durata deve avere un tempo medio di 60 secondi, mentre nel caso di specie le tre telefonate hanno avuto al massimo una durata complessiva di 44 secondi.

    Secondo la prospettazione accusatoria la ricorrente non attribuiva inoltre un codice di criticità/gravità adeguato alla richiesta di intervento, consigliando ai suoi interlocutori, parenti del paziente Lxxxxx, di rivolgersi alla Guardia medica, ipotesi contemplata dalle linee-guida solo in caso di codice d'urgenza bianco, mentre si trattava di codice d'urgenza rosso, come rilevato dai sanitari successivamente intervenuti presso l'Ospedale "XXXXXXXXXX".

    2. La ricorrente deduce i seguenti motivi di ricorso.

    2.1. Erronea applicazione degli artt. 328 cod. pen. e 530, comma 2, cod. proc. pen., nonché delle Linee-guida e del Protocollo sulle regole di comportamento del Servizio 118 della Regione xxxxxx poiché la Corte territoriale non ha indicato alcuna prova decisiva a supporto di una condotta dolosa che evidenziasse l'effettiva integrazione del reato contestato, tenuto anche conto che la perizia medico-legale acquisita agli atti individuava una condotta colposa che non aveva inciso sulla verificazione causale della morte di xxxxx xxxx in termini di alto grado di credibilità razionale. La ricorrente segnala inoltre che l'attribuzione del codice di criticità sulla base delle informazioni ricevute telefonicamente ha carattere presuntivo, sicché non configurabile appare nel caso di specie il dolo generico richiesto per l'integrazione del reato
    contestato, non emergendo in alcun modo che la sua condotta fosse attribuibile a un cosciente e volontario rifiuto di prestare soccorso.

    2.2. Violazione degli art. 111 Cost. e 546, lett. e) cod. proc. pen., in quanto nel rigettare le prospettazioni difensive la Corte territoriale si è limitata a richiamare la motivazione della sentenza impugnata.

    2.3. Erronea applicazione degli artt. 157 e 161, comma 2, cod. pen., trattandosi di reato estinto col decorso del termine massimo di sette anni e mezzo.

    2.4. Con memoria depositata in data 14/5/2018 il difensore-procuratore speciale delle parti civili xxx xxx xxx xxx ha sollecitato in modo del tutto generico l'affermazione di totale infondatezza del ricorso e chiesto la condanna della ricorrente alla rifusione delle spese sostenute nel grado dalle suddette parti civili, non specificamente indicate.

    CONSIDERATO IN DIRITTO

    1. Il ricorso è inammissibile.
    1.1. Il primo motivo di ricorso è inammissibile, poiché ripropone censure di merito già puntualmente esaminate dalla Corte territoriale, che le ha respinte con motivazione del tutto congrua congrua e immune da vizi logici e giuridici (pp. 8-9). La giurisprudenza di legittimità ha più volte chiarito che il reato di rifiuto di atti di ufficio è un reato di pericolo, onde la violazione dell'interesse tutelato dalla norma incriminatrice al corretto svolgimento della funzione pubblica ricorre ogniqualvolta venga denegato un atto non ritardabile alla luce delle esigenze prese in considerazione e protette dall'ordinamento, prescindendosi dal concreto esito della omissione (ex plurimis, Sez. 6, n. 39745 del 27/09/2012, Rv. 253547; Sez. 6, n. 3599 del 23/3/1997, Rv. 207545).

    Quanto all'elemento oggettivo, è stato affermato che il rifiuto si verifica non solo a fronte di una richiesta o di un ordine, ma anche quando sussista un'urgenza sostanziale, impositiva del compimento dell'atto in modo tale che l'inerzia del pubblico ufficiale o dell'incaricato di pubblico servizio assuma la valenza di rifiuto dell'atto medesimo, tanto che esso non è integrato solo nell'ipotesi, in cui l'atto, pur rispondendo alle ragioni indicate dalla norma incriminatrice, non
    riveste carattere di indifferibilità e doverosità (Sez. 6, n. 17570 del 13/3/2006, Rv. 233858).


    Quanto all'elemento soggettivo, va osservato che il rifiuto di atti professionali, dovuti - come nel caso in esame - per ragioni sanitarie, deve essere verificato avendo riguardo alla sua natura di delitto doloso, ossia con riferimento alla consapevolezza del contegno omissivo, senza tracimare in violazioni sulla colpa professionale sanitaria, che esula dalla struttura psicologica del reato (Sez. 6, n. 1602 del 6/12/95, Rv. 204468).

    Orbene, nella fattispecie in esame i giudici del gravame, in sintonia con gli enunciati principi hanno correttamente esaminato e valutato le emergenze processuali alla stregua dei rilievi e delle censure formulate nell'atto di appello e sono pervenuti alla conferma del giudizio di colpevolezza con puntuale e adeguato apparato argomentativo, ritenendo anzitutto estraneo al giudizio sulla condotta dell'imputata la circostanza che il tempestivo intervento dell'autoambulanza non avrebbe salvato la vita di Lxxxx, deceduto poco dopo l'arrivo in ospedale, trattandosi di profilo rilevante per la sussistenza del diverso (ed eventualmente concorrente) delitto di omicidio colposo.

    La sentenza impugnata giustifica inoltre puntualmente la ritenuta sussistenza nel caso di specie della connotazione indebita, tanto sotto il profilo oggettivo che soggettivo, attribuibile al rifiuto, là dove indica che la ricorrente non ha esercitato malamente una discrezionalità tecnica, ciò che avrebbe potuto ricondurre la valutazione dell'elemento psicologico della condotta all'ambito della colpa professionale sanitaria, ma si è al contrario semplicemente, consapevolmente e reiteratamente sottratta alla valutazione dell'urgenza dell'atto d'ufficio, peraltro del tutto evidente fin dalla prima chiamata dei familiari del Lxxxx (Sezione 6, n. 39745 del 27/09/2012, Rv. 253547), come fatto palese nella specie dall'ostinata mancanza del mirato approfondimento telefonico imposto dalle pertinenti linee-guida e dal meccanico, reiterato ed assolutamente inappropriato invito di rivolgersi alla guardia medica, risultando peraltro smentita la carenza di ambulanze disponibili opposta dalla stessa ricorrente alla seconda e terza chiamata (pp. 8-9).

    Il Collegio osserva al riguardo che in ogni caso per individuare il carattere indebito del rifiuto è nei poteri del giudice di merito controllare la discrezionalità tecnica da parte del sanitario (Sez. 6, n. 35526 del 06/07/2011, Rv. 250876), con la possibilità di concludere che essa trasmoda in arbitrio, ove, come nella vicenda in esame, il relativo esercizio non risulta sorretto da un minimo di ragionevolezza ricavabile dal contesto e dai protocolli vigenti per il servizio 118, sicché congruamente giustificata risulta nella sentenza impugnata la volontarietà ed irragionevolezza dell'accertato rifiuto della prestazione doverosa (Sez. 6, n. 6475 del 04/03/1983, Rv. 159898).

    1.2. Manifestamente infondato, per quanto testé esposto sub 1.1., deve ritenersi il secondo motivo di ricorso. Lungi dal limitarsi a richiamare la motivazione della sentenza di condanna di primo grado, la Corte territoriale opera una puntuale e del tutto adeguata valutazione delle censure proposte con l'atto di appello.

    1.3. L'art. 129 cod. proc. pen. non riveste una valenza prioritaria rispetto alla disciplina della inammissibilità e non attribuisce al giudice dell'impugnazione un autonomo spazio decisorio svincolato dalle forme e dalle regole che presidiano i diversi segmenti processuali, ma enuncia una regola di giudizio che deve essere adattata alla struttura del processo e che presuppone la proposizione di una valida impugnazione (Sez. U, n. 12602 del 17/12/2015, Rv. 266818). L'inammissibilità del ricorso per cassazione preclude pertanto ogni possibilità sia di far valere sia di rilevare di ufficio, ai sensi dell'art. 129 cod. proc. pen., l'estinzione del reato per prescrizione maturata in data posteriore alla pronunzia della sentenza di appello. Nel caso di specie, il termine massimo di prescrizione si sarebbe in vero maturato, a seguito dei verificatisi
    atti interruttivi e salvi ulteriori periodi di sospensione, solo in data 5/1/2018 (6 anni dalla commissione del fatto, aumentati di 1/4 ex art. 161 cod. pen.), quindi successivamente alla sentenza impugnata.

    1.4. All'inammissibilità del ricorso conseguono a carico del ricorrente le pronunce di cui all'art. 616 cod. proc. pen., in ragione dei profili di colpa emergenti dalla natura delle censure proposte.

    1.5. Nel giudizio di legittimità non competono le spese processuali alle parti civili che, come nel caso di specie, dopo avere depositato memoria - peraltro del tutto generica tanto in riferimento alle ragioni a sostegno delle predicate inammissibilità e infondatezza che alla determinazione delle spese di rappresentanza e difesa nel grado - non intervenga nella discussione in pubblica udienza, stante il rinvio disposto dall'art. 168 disp. att. cod. proc. pen. alle norme che disciplinano la condanna dell'imputato soccombente alle spese in favore della parte civile (Sez. 6, n. 17057 del 14/04/2011, Rv. 250062; Sez. 2, n. 52800 del 25/11/2016, Rv. 268768; Sez. 4, n.30557 del 07/06/2016, Rv. 267690; Sez. 5, n. 47553 del 18/09/2015, Rv. 265918).

    P.Q.M.

    Dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processualie della somma di Euro duemila in favore della Cassa delle ammende.

    Così deciso il 16 maggio 2018.

    Fonte: Corte di Cassazione - copia non ufficiale
  15. .
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    5-16-25 ottobre 2018

    Sede delle Attività

    La didattica Teorica 1 modulo verrà svolta presso l’Hotel Villa delle Rose , in Via Giovanni Calvi 1, in Roma, mentre la didattica 2/3 modulo teorica/pratica e pratica verrà svolta presso il circuito Internazionale di Aprilia , sito in Via delle Valli, 37 Aprilia (LT)
    La FINALITA' del corso: è di permettere a tutti coloro che svolgono o che vorrebbero svolgere in futuro l’attività di conducente di autoambulanza, di automedica o di altro veicolo assimilato di effettuare una formazione e/o aggiornamento in merito a novità sulle norme di circolazione agevolando le difficoltà, che il conducente incontra, nell’acquisire “nuove” conoscenze su normative e decreti in atto, sulla “tecnica di guida” dei mezzi di soccorso, sulle caratteristiche tecniche dei veicoli e attrezzature.

    DURATA DEL CORSO
    Il corso suddiviso in “moduli” avrà una durata di 16 ORE totali.

    Il corso sarà svolto da Formatori esperti - Autisti di Ambulanza nonché Istruttori ed Insegnanti di Guida abilitati MCTC: Stefano Di Nino , Fabrizio Pascolini, Roberto Chianta.
    COSTO DEL CORSO

    IL corso “certificato EBAfos D.Lgs. 81/08” (ENTE BILATERALE AZIENDALE PER LA FORMAZIONE E LA SICUREZZA - ORGANISMO PARITETICO INTERSETTORIALE) composto da 3 moduli complessivi ha un costo totale se pagato in una unica soluzione di 200 euro.

    Il corso è suddiviso in moduli

    1 MODULO 5 ottobre 2018 Teorico della durata di 5 ore (8,30 - 13,30 c.a.) il costo è di 25 euro (rimborso spese) + eventuale quota associativa 25 euro. Il corso si svolgerà presso la Sala Meeting , dell’Hotel Villa RosaVia Giovanni Prati, 1, 00152 Roma RM (vicinanze Stazione Trastevere).
    2 MODULO 16 ottobre 2018 Teorico/Pratico della durata di 5 ore (8,30 - 13,30 c.a.) il costo è di 25 euro (rimborso spese) + eventuale quota associativa 25 euro. Il corso si svolgerà presso il Circuito int. Via delle Valli, 37 Aprilia (LT).
    3 MODULO 25 ottobre 2018 Teorico/Pratico della durata di 6 ore (8,30 - 14,30 c.a.) il costo è di 150 euro (rimborso spese) + eventuale quota associativa 25 euro. Il corso si svolgerà presso il Circuito int. Via delle Valli, 37 Aprilia (LT).
    Al termine dei SINGOLI moduli i partecipanti riceveranno un attestato di partecipazione con il voto di valutazione al termine del test finale. Al termine dei 3 moduli effettuati in 3 date diverse i discenti riceveranno la certificazione EBAfos valevole ai fini legali del D.Lgs. 81/08 attestato valido in tutta Italia, ai fini della normativa in oggetto.
    N.B. La partecipazione ad un singolo modulo o due moduli non consente l’acquisizione del “certificato EBAfos D.Lgs. 81/08” ma solo attestati di partecipazione ai “SINGOLI MODULI”.

    Programma Corso Guida Sicura

    Primo modulo

    • Normativa di riferimento
    • Conosciamo il mezzo
    • Conosciamo il lavoro del mezzo Fattori di rischio dell’automezzo
    • Gli incidenti dei veicoli da lavoro
    • Il fattore umano e le attitudini alla guida
    • Alcol, farmaci e stupefacenti Sicurezza passiva
    • Igiene alla guida ed ergonomia, dispositivi di ausilio alla guida, Posizione di guida

    Correzione quiz, valutazione globale del discente consegna attestati

    Secondo modulo

    Cenni teorici di:
    • La frenata di emergenza Tecniche di sterzata
    • Sotto e sovrasterzo
    • Il ribaltamento
    • Controllo della sbandata Principali cause di incidente
    • Impostazione alla guida
    • Impostazione traiettorie e percorrenza in curva
    • Slalom lento e dinamico
    • La frenata di emergenza e lo scarto dell’ostacolo Controllo della sbandata
    • Sotto e sovrasterzo
    • Ecodriving
    Pratica su piazzale

    Conoscenza del veicolo
    Presidi e attrezzature
    Guida accompagnata
    Controllo veicolo e compilazione check-list;
    Manutenzione ordinaria
    Tecniche di comunicazione
    Igiene e disinfezione del veicolo e dei materiali
    Ancoraggio dei presidi
    Correzione quiz, valutazione globale del discente consegna attestati

    Terzo modulo

    Pratica ed esecuzione di esercizi su pista argomenti “teorici” del secondo modulo


    Simulazioni in aree dedicate
    Le simulazioni vengono effettuate dividendo i partecipanti in più gruppi e con istruttori dedicati ad ogni gruppo. I gruppi si alternano sulle diverse aree di esercitazione create sul piazzale.
    Simulazioni riprodotte in circuito sono:

    Frenata d'emergenza con l’evitamento di un ostacolo (come effettuare una

    frenata con ABS sull'asfalto bagnato evitando un ostacolo improvviso)

    SKID Car o sistema alternativo (gestione delle perdite di aderenza dell'asse posteriore della vettura

    attraverso l'utilizzo di un apposito strumento che varia l'assetto della vettura);

    Posizionamento del mezzo in curva e/o in autostrada a protezione del luogo

    dell’evento;

    Slalom in avanti e a retromarcia;
    Slalom veloce;
    Passaggio in strettoie.
    Prove di parcheggio in zone disagiate
    Prova di slalom con occhiali che simulano l’ebbrezza alcoolica
    Quiz a risposta multipla
    Correzione quiz, valutazione globale del discente consegna attestati

    Al termine della parte pratica il discente verrà valutato secondo, la modularità, il tempo, l’impostazione e il comportamento di guida nelle varie isole.

    ATTENZIONE posti disponibili 20 per i primi 2 moduli e 15 per il terzo modulo su pista
    Le prenotazione devono pervenire (per motivi organizzativi) in tempi brevi.
    Per maggior informazione, scrivete a [email protected],oppure telefonicamente ai numeri 32712222757 - 3382766346





    EBAfos Organismo Paritetico Intersettoriale
    Ente Bilaterale Nazionale

    European Road Safety Charter

    Emerform formazione
5035 replies since 7/7/2003
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